La pioggia nel pineto, Gabriele D’Annunzio
“Lo piòe su la macchia” di Cesare Angerilli (San Ginesio 13-5-1958), segna l’esordio poetico del giovane e promettente autore di “Minchiatine Ginesine”, ed è con questa sua prima opera perciò ,che apre la nuova rubrica sullo stesso filone dal titolo “Versi e Riversi” , dove anche la sottoscritta che qui leggete in sola veste di presentatrice, apporterà il consueto contributo di coautrice a partire dalla prossima pubblicazione.
Scritta di getto nel suo diario studentesco nel lontano 1977, ma rinvenuta solo di recente , “Lo piòe su la macchia” anticipa attraverso i versi, tutta la ruvidità di linguaggio che l’autore esprimerà appieno nella maturità coi vari scritti raccolti nelle “Minchiatine Ginesine”. In essa, il ruspante poeta in erba immagina di trovarsi in una tipica vegetazione delle colline ginesine – luogo che da diverse testimonianze raccolte, pare egli abbia frequentato assiduamente in giovane età – dove viene colto da un temporale estivo mentre è in compagnia di una donna, Liundina, ispiratrice ignara di quest’opera giovanile dal ritmo veloce ma spezzato. Si osservi già la prima espressione “Statte zitta”, quanto lirismo dirompente nel tratteggio di quel carattere femminile universale così poco incline a lasciare spazio al silenzio in ogni situazione anche la più intima, e più avanti il termine “Scòrda”, quale pathos imprima ai ripetuti richiami alla giovane che sembra non voler ascoltare ogni suo imperativo a tacere, per abbandonarsi completamente a lui in un corpo a corpo unico nella natura, al ritmo incalzante della pioggia che batte su loro e su tutta la vegetazione intorno. Notare poi, come nel chiaro tentativo del poeta di coinvolgere Liundina al suo stesso sentire, si dispieghi la sua maestria evocativa disseminata lungo l’intera scansione metrica, con le “u” nei nomi delle piante – rugni, urmi – per concorrere a rendere più greve il suono autentico emesso dal giovane nel vortice dei sensi, e la genuinità delle immagini figurate nella descrizione della natura in cui i due sono immersi – le cicale pallose, la ‘nsalata solitaria – e di lei, la donna – la faccia roscia nfussa de piòe, le gingive come mandorle non più brence – mentre appare dannatamente profetica rispetto la vita solitaria condotta ancora oggi dall’autore, l’anafora, la ripetizione in ben due versi dell’ augurarsi il non venir meno di tanta promessa di felicità , “la favola vèlla”, che nell’immanenza dell’estasi amorosa li rendeva quel giorno protagonisti assoluti in concerto con una natura grondante come i loro corpi avvolti in vestiti leggeri e bagnati, non si riveli infine che una mera illusione.
Tamara Moroni
Lo piòe su la macchia
di Cesare Angerilli
Statte zitta. A luru
de la macchia non sento
parole che dici
da cristià; ma sento
parole più nòe
che dice lo piòe e le foglie
lontane.
Scòrda. Piòe
da le nuvole sparregghiate.
Piòe su le pedicine de cerqua
‘mporverate e secche,
piòe su l’urmi
rustici e ardi,
piòe su l’erba
medica,
su le jinestre jalle
che è fiurite,
su li jinepri fitti
che picca se li tocchi,
piòe su le facce nostre
da contadì,
piòe su le ma’ nostre
scorticate,
su li vistiti nostri
a spenne poco,
su l’impuri pensieri
che t’apre lu core
novellu,
su la nostra favola vella
che speriamo
non sia ‘na ‘nculata,
o Liundina.
Senti? come piòe
su la solitaria
‘nsalata e su li rugni
co’ un remore che ntrona
e cambia nell’aria
a seconna delle fronne
più fitte, meno fitte.
Scòrda. Risponne
a lu piantu lu cantu
de le cicale
che lo piòe
non ‘mpaurisce
e manco lu cielu scuru.
E lu vidullu
ha un sonu, e la ‘nsalata
altru sonu, e lu jinepru
ancora ‘n altru, strumenti
differenti
sotto diverse déte.
E in mezzo
stimo nuàltri
a la macchia
vivi come arbuàtti;
e la tua faccia roscia
è nfussa de piòe
come ‘na foglia,
e li capigli tui
prefuma come
le jalle jinestre,
o creatura de campagna
che te se dice Liundina.
Scòrda,scòrda. Lu cantu
de le pallose cicale
sempre
più fiaccu,
se fa sotto lo piòe
che aumenta;
ma ‘n altru cantu se mmischia
più rraganitu,
che vène da lajò,
ma sempre dentro la macchia.
Più surdu e più fiaccu
alla fine non se sente più.
Solo un remore
ancora se sente, po’ no,
po’ sci, po’ no, po’ sci.
Lu mare non se sente.
Adesso se sente solo
per tutta la macchia lo piòe
che rlàa,
lu remore de lo piòe che cambia
a seconna de le fronne
più fitte, meno fitte.
Scòrda.
La cicala
sta zitta; ma jò lu pantà,
la ranocchia,
canta da quarche parte,
chi sa do’, chi sa do’!
E piòe su le ciglie tue,
Liundina.
Piòe su le ciglie tue nere
che pare che piagni
ma de piacere; non si vianca
si quasci verde,
che pari ‘na pianta anche tu.
E tutta la vita è dentro de nualtri
giovane e prefumata,
lu core dentro lu pettu
è come ‘na pesca
sana,
sotto le palpebre l’occhi
è come ‘na pozzanghera tra l’erba,
li denti ne le gingive
come mandorle non più brence.
E jimo de fratta in fratta
‘bbracciati o per mà
(e tutte ‘sse rame per terra
ce ‘cchiappa le caviglie
ce scortica le jinocchie)
chi sa do’, chi sa do’!
E piòe su le facce nostre
da contadì,
piòe su le mà nostre
scorticate,
su li vistiti nostri
a spenne poco,
su l’impuri pensieri
che t’apre lu core
novellu,
su la nostra favola vella
che speriamo
non sia ‘na ‘nculata,
o Liundina.