Dal’inedito
“Caravaggio e le ombre dell’anima”
di Matteo Ricucci
Caravaggio fu gelosissimo della sua arte e non volle permettere, mentre era ancora in vita, a nessun sedicente pittore di impadronirsi dei segreti del suo mestiere. Lungo gli anni del XVII secolo più di un pittore si spacciò come suo allievo e, se in quel tempo il Merisi fosse stato ancora in vita, glielo avrebbe ricacciato in gola a fil di spada. Allora chi erano in realtà i cosiddetti “Caravaggeschi”? Senza dubbio furono pittori professionisti che sentirono anche loro un desiderio di novità e provarono a mettersi in gioco, studiando i dipinti del Merisi, esposti in chiese e in musei sparsi per l’intera Europa. Di costoro una parte furono suoi compagni di bisboccia quali Orazio Gentileschi, Carlo Saraceni, Bartolomeo Manfredi, Orazio Borgianni, i primi e genuinamente veri seguaci del loro amico e maestro. Tutti insieme furono coinvolti in un processo lungo e fastidioso su denuncia del pittore manierista Giovanni Baglione che si sentì insultato da una satira offensiva, scritta da Onorio Longhi, architetto, in combutta con Orazio Gentileschi. Caravaggio odiava tanto il Baglione da considerarlo il suo più acerrimo nemico per aver egli tentato di copiare la sua tecnica senza riuscirci, nemmeno lontanamente. Alcuni, comunque, seppero più di altri cogliere il suo messaggio innovatore e produssero opere insigni. Costoro, per una sorta di destino malefico, non ebbero vita lunga, a parte il Gentileschi il quale, nel 1639 morì, alla età di 76 anni, triste e solo, nella fredda e umida reggia di Carlo I d’Inghilterra. Il Borgianni morì a 38 anni nel 1616; Carlo Saraceni di peste a 40 anni; Manfredi a 35 anni. Dopo la sua fuga da Roma, Michelangelo riparò a Napoli dove alcuni giovani di talento seppero trarre vantaggio dalla sua presenza, assorbendo, quasi per osmosi, il suo stile e la sua estetica. Tanti di loro raggiunsero vette eccelse: Battistello Caracciolo, Carlo Sellitto, Diego Velasquez, Jusepe De Ribera detto Lo Spagnoletto, e altri ancora. Anche di alcuni di loro la peste del 1656 non ebbe pietà e furono accomunati alla tragica vita del loro caposcuola. Il destino, invece, fu più benigno per alcuni altri giovani pittori dell’Europa del Nord i quali, sulla sua scia, raggiunsero davvero vette eccelse. Essi, essendo di già seguaci del naturalismo paesaggistico fiammingo, sfruttarono intelligentemente il realismo pittorico del Caravaggio, raggiungendo il virtuosismo chiaroscurale nel campo della figura umana e nella pittura monumentale di committenza religiosa. Tra costoro il più noto fu Pietro Paolo Rubens che fece copia della “Deposizione” del Caravaggio e altre prove tecniche che egli applicò al suo modulo espressivo. Altri, memori di un tale e tanto maestro, furono su, su per i secoli, fino al XIX, quando Paul Ce-zanne ne fece anche lui una ennesima copia ad acquerello. Ma il vero portavoce dell’arte caravaggesca nel Nord Europa fu Gherrit van Honthorst, detto in italiano “Gherardo delle Notti” a causa delle dense ombre che ristagnano nei suoi dipinti, illuminati da una debole fonte di luce, quasi sempre schermata da una mano e posta all’interno della scena rappresentata e non fuori e a sinistra, come si osserva nelle tele di Michelangelo Merisi. Gherrit fu un prodigioso maestro e quasi tutti i grandi del Nord Europa, cominciando da Rembrandt, da Rubens, da Van Dick, da Vermeer e giungendo a tanti altri, furono suoi attenti allievi e appresero a pieno da lui la lezione trasmessa da quel lontano e insigne maestro italiano. All’ombra del Caravaggio visse e lavorò, per lunghissimo tempo, come modello e garzone, il pittore siciliano Mario Minniti che provò a imparare qualcosa dalla sua arte ma con scarso successo. Egli fu soltanto un buon artigiano, certamente solido e produttivo, ma assolutamente scevro da quel colpo d’ala che porta il vero artista nel mondo della pura bellezza. Decisamente meglio andò a Francesco Boneri, soprannominato Cecco del Caravaggio, che il Mancini ebbe a definire come uno dei pittori più dotato di talento fra i seguaci del Caravaggio, riuscendo egli a creare, con stile del tutto personale, dipinti pieni di fascino. “L’Amore alla fontana” fu la sua opera più famosa, un doppio dipinto a trompe-oeil che, per mezzo di una tenda che copre in parte il primo, evoca un fatto storico, noto agli intimi del marchese Giustiniani il quale, nella sua quadreria, nascondeva “L’Amore vincitore” del Caravaggio sotto una spessa tenda di un ricco broccato verde.
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