di Tamara Moroni e
Cesare Angerilli
TAMARA
Insieme al freddo e ai soliti malanni di stagione, tornano anche alcuni ricordi di un passato in cui, non ancora inventate le Asur e gli ospedali di zona, perfino ammalarsi era più bello. Nella maggior parte degli attentati che procuravo alla mia salute e incolumità, vuoi per l’eccessiva esuberanza che mettevo nella personale scoperta del mondo,vuoi per la costante sfida alla mia sana e robusta costituzione fisica in ogni avversità atmosferica, i miei lasciavano correre: un bacetto, un cerotto sulla ferita e via, ma se proprio serviva, niente paura, c’era il vicino ospedale di San Ginesio, col Pronto Soccorso sempre pronto. Che era la volta buona di andarci, per mettermi quei cinque sei punti da qualche parte, nessuno in casa lo diceva chiaro e tondo, non c’era tempo; lo capivo appena nonna cominciava ad agitarsi che bisognava jì subito a spiccà lu tassì, e mamma concludeva col dirmi “andiamo a trovare Suor Teresa”. A quelle parole, io allora tutta contenta salivo sul tassì di Ezio, una Mercedes bianco avorio anni ’50, non vedendo l’ora di varcare la soglia dell’ospedale per vederla apparire dal lungo corridoio,venirmi incontro col suo bellissimo sorriso e a braccia aperte. Come quella suora dell’ospedale di San Ginesio nessuno sapeva prendermi in braccio, asciugare le mie lacrime tra i singhiozzi, consolarmi a base di carezze, parole dolcissime e caramelle alla frutta, tanto che, anestetizzata com’ero dalle prime cure di Suor Teresa, qualsiasi cosa da lì in poi potesse farmi il medico non avrei sentito niente, soprattutto con lei ancora lì a tenermi la mano. Era così con tutti, Suor Teresa, ed era così per tutti, quando in ogni più piccolo paese c’era un ospedale, dove senza tante specializzazioni, il chirurgo che ti aiutava a nascere in sala parto, era lo stesso che, prima o poi, più grandicello, te lo trovavi negli ambulatori al piano sotto a ricucirti la testa appena spaccata, e quando ogni medico sapeva fare una diagnosi soltanto a guardarti, a differenza di ora che studiano tutti anatomia in inglese, ma per sapere più o meno quello che hai, prima devi sentirne almeno altri tre o quattro, e fare la fila nei vari reparti per venire a scoprirlo poi da una macchina. Senza contare il gran confort del medico che correva a casa a ogni chiamata e si prestava a ogni tipo di intervento: dalle fasciature a rimetterti la spalla slogata, dall’incisione di ascessi con le forbici da cucina disinfettate al momento alle estrazioni dentali, che se lo facesse ancora oggi verrebbe declassato all’istante a tuttologo, poi di sicuro denunciato, processato e cacciato dall’Ordine. Ma per fortuna, noi nati prima dello sbarco sulla luna, abbiamo avuto il nostro tuttologo di famiglia, il nostro medico specializzato in medicina generale, a cui i mutuati, tutti, erano affezionati, riempivano, estate e inverno, la sala d’attesa del suo ambulatorio e lui ricambiava ognuno con ricette su ricette. Tante ne prescriveva di medicine, tante se ne prendevano, e tutte insieme. Ogni tanto, sì, a qualcuno veniva il dubbio potessero fare più male che bene così tante, come alla moglie di Umberto, uno fra i più grandi consumatori sul posto di medicine di ogni tipo, che però la tranquillizzava prontamente, rispondendo: “ Dentro, ognuna pija la strada sua”.
Due sono stati i medici che si sono avvicendati nella mia infanzia. Prima il dottor Spè, un distinto ed elegante signore col pizzo, il panciotto e il foulard, che sentivo arrivare ogni volta annunciato da folate di virile profumo, poi il dottor Astolfi, con la sua valigetta nera e la Volkswagen verdina,la battuta sempre pronta come quella volta che venuto a casa per i miei soliti acciacchi di gola, conoscendo bene la morbosità di mia nonna per me, che aveva sempre paura mi ammalassi, nell’andare via, mentre richiudeva il cancelletto davanti casa,disse: “Qui chiudimo vè, sennò j’entra l’aria, a la frichina”. In effetti, ne so qualcosa, mia nonna esagerava, ma da piccoli la nostra unica prevenzione alle malattie invernali era coprirsi a strati, da sopra a sotto, quindi: maglia a manica lunga, sotto, e lunghissime sciarpe multicolore con le frange, sopra, fatte a ferri dalle mamme, le nonne, le zie, con gli avanzi di lana, più cuffie coordinate, se bastava la lana, sennò passamontagna, tanto per i maschi che per le femmine, comprati in merceria o al mercato settimanale. Capitava però non di rado, che una volta usciti tutti imbacuccati da casa, si arrivava a scuola semi spogliati con la sciarpa in mano che strusciava per terra, ché c’era sempre il compagno che da dietro te la tirava a strozzarti, e quindi te la toglievi, o che te la levava con la forza per tirarla a qualcuno preso di mira, o semplicemente per aria. Succedeva allora che qualche volta tornavi a casa con la febbre a 39, specie quando, caduta la difesa della sciarpa,t i erano arrivate addosso decine e decine di palle di neve giù fino alle tonsille. In quel caso la prima vittima influenzale, oltre te, era la gallina più vecchia del pollaio, subito sacrificata per il brodo di primo intervento terapeutico,in attesa di chiamare il medico.
Da quel momento in poi, a casa mia, cominciava la rivoluzione, un subbuglio generale. Primo pensiero, veniva il medico, c’era da riceverlo: come stava la casa? Mai una volta a posto, sempre da ordinare, pulire bene il lavandino dove il medico si sarebbe lavato le mani, sostituire la saponetta e l’asciugamano, cambiare federe, copriletto e lenzuola dal letto dei miei genitori dove, cacciato via babbo a dormire nella mia stanza, sarei stata ospite per tutto il decorso della febbre e anche oltre, poi ancora scaldare il letto col prete e, ultimo ma non ultimo, pensare a cosa poter offrire al dottore per il disturbo. Un bel da fare, tra cerimonie e allestimenti ambulatoriali. Fatto tutto questo, si poteva finalmente andare a chiamare il nostro medico dalla cabina telefonica del posto pubblico. E a dispetto di oggi, che siamo tutti dotati di cellulari e i camici bianchi anche di cercapersone, a qualsiasi ora telefonassi al tuo medico eri certo di trovarlo, ed eri certo che sarebbe venuto anche se non stavi più di là che di qua, c’era sempre chi rispondeva, o lui personalmente o chi per lui,c he diligentemente prendeva nota della chiamata e riferiva; non come adesso insomma, che quando ti serve è sempre in vacanza all’altro capo del mondo e al suo posto risponde una voce registrata con cui parlare torcendoti per la colica in corso.
Per quando arrivava il medico, però, la nostra casa era trasformata. In camera, il comodino col tovagliolo pulito e stirato con sopra il bicchiere pieno di camomilla zuccherata, e il cucchiaio da minestra per abbassare la lingua col manico e vedere la gola tra i conati di vomito che ti dava quel normale attrezzo quotidiano diventato strumento di tortura; in cucina il tavolo già apparecchiato con la tovaglietta buona, tazza, teiera e piattino con le pastarelle, le mele a cuocere nel forno della stufa economica, dove sopra bolliva la sterilizzatrice con la siringa vicino al pentolino per il tè colmo d’acqua, che spesso andava fuori se la visita andava per le lunghe e allora sentivi le palline d’acqua che correvano friggendo a contatto della piastra arroventata della stufa che andava a tutto per intiepidire fino al piano sopra dove passavano i tubi. Nonostante ciò e il rinforzino di una stufa a cherosene sul pianerottolo, d’inverno le nostre camere erano vere e proprie ghiacciaie, che cominciavi a tirare fuori la testa e le braccia da sotto le coperte, quando fuori dalla finestra vedevi i primi fiori di pesco. E soprattutto, pronta pure io nel lettone sotto uno strato di imbottite ad aspettare il medico, che finita la visita ti faceva la prima di una lunga serie di punture di penicillina, ti dava un buffetto sulla guancia e ti lasciava alle cure dei familiari, per tornare a trovarti qualche giorno dopo.
Superata la febbre e la malattia,tra supposte, punture, impacchi, gargarismi e pasticche di Formitrol, con la convalescenza arrivava lo spasso. Quello che chiedevi ti veniva dato: quaderni nuovi, scatole di giochi, giornaletti da colorare, colori Giotto da 36, penne Carioca, più qualche extra in bambole e bambolotti. Completati un paio d’album di figurine Panini, era ora che tornasse il medico per un’altra visita, ma stavolta per assicurarsi della completa guarigione e rilasciare il certificato di riammissione a scuola, dove i genitori non ti rimandavano prima di altri sette giorni, per paura di una ricaduta, e scavalcavi così l’anno scolastico, con quelle due o tre degenze a letto.
Per i compiti non restavi mai indietro, tanto venivano le compagne di classe a portarteli a casa, insieme ai saluti del maestro. Una vera pacchia.
CESARE
Tamara, i medici, le tonsilliti, Suor Teresa, ma come c’hai pensato? E’ proprio vero, siamo stati fortunati a nascere prima dello sbarco sulla luna, anche ammalarsi era più bello, bastavano due lineette di febbre ed ero coccolato come Gesù Bambino, e poi Bastio che mi portava i compiti, anche se bisognava andarlo a chiamare una ventina di volte tanto era timido, e sedeva al mio capezzale, manco fossi moribondo.
Gli inverni ginesini erano lunghi e nonostante la maglia di lana sotto fatta a ferri che infeltrendo,lavaggio dopo lavaggio, non faceva passare nemmeno le schioppettate, qualcosa ti beccavi sempre e a letto per qualche giorno ci dovevi andare. Le estati erano sì brevi ma talmente intense e ruspanti che un gesso o qualche punto di sutura non te li toglieva nessuno.
La prima figura di medico che ricordo è mio padre, anche se non era medico. Succedeva allora che il primo soccorso, e anche ultimo, si prestasse in casa, non come adesso che per una feritina vai a fare la fila dodici ore al Pronto Soccorso vero, o per un brufoletto che ti sta crescendo chiami il medico vero. Delle medicazioni di mio padre, mannaggia a lui, ricordo il grande dolore, mio; mi avesse, una sola volta, fatto stringere tra i denti una striscia di cuoio o bere mezza bottiglia di “wischi”, come si vedeva fare nei film di “caoboi”, niente, mai nessun tipo di anestesia anche se casereccia. Come quella volta che mi portarono a casa con un ginocchio che non c’era più, piangevo e sanguinavo a dirotto, il breccino dei giardini del Colle mi aveva scoperto l’osso. Mio padre prese le pinzette per i francobolli, le sterilizzò sopra il fornello, e cominciò a togliere uno a uno i sassolini all’interno del mio ginocchio. Non tutti però, ché uno c’è rimasto, risulta dalle lastre, che solo qualche anno fa uno dei luminari di adesso pensava a un carcinoma, a un tumore osseo; dovetti tranquillizzarlo io, dicendo non si preoccupi, è solo un sasso di quel bellissimo giardino dove sono cresciuto. Poi la medicazione, dopo litrate di spirito che mi avevano fatto perdere i sensi. Poi il cambio della medicazione, che stava cicatrizzando insieme alla ferita e non c’era verso di staccare la garza, nonostante damigiane di acqua calda, con mia madre che diceva a mio padre: “Non fa’ cuscì, pròa qui, proò a staccà’ qua…” e mio padre che rispondeva: “Se si tanto bràa fallo tu!”; mi dovettero portare in ospedale. In ospedale c’era il dottor Appignanesi, capii che per me era finita, lo conoscevo e, soprattutto, lo ricordavo,t empo prima mi aveva tolto una specie di foruncolo che mi era venuto sul polso sinistro con una specie di tizzone ardente che avevo ripreso i sensi dopo due tre settimane. Il dottor Appignanesi, inoltre, mandava giù un cicchetto di Vecchia Romagna o Oro Pilla, invece che farlo mandare giù a me, che ero paziente.
In ogni ospedale che si rispetti entri e senti odore di ospedale, di disinfettante, di cucinato: al Civico Ospedale di San Ginesio no, ogni odore era sovrastato da quello del dottor Spè, il nostro pediatra. Mi aveva fatto la vaccinazione contro il vaiolo con una specie di penna stilografica che il dolore non ti dico; quando ti faceva male un dente cariato ti ci metteva dentro una pallina d’ovatta imbevuta di tintura che ti dava sollievo per tre quattro secondi, non di più, e poi il dolore tornava più forte di prima. Il dottor Spè, l’arbre magique di San Ginesio. Molto curato, con un pizzo alla Oscar Piatti, il mio maestro, elegantissimo e…profumatissimo. Quando avevi preso la tonsillite capivi che Spè stava arrivando dal suo profumo: tu eri a letto,Spè ancora a casa sua, ma quel profumo già lo sentivi. La tua cameretta ne rimaneva impregnata per settimane intere. Non so che profumo fosse, forse Pino Silvestre, ma di sicuro Spè se ne spruzzava a litrate. Aveva una Lancia Appia nera, bellissima, quando partiva mandava il motore al massimo dei giri e lasciava la frizione piano piano. Le poche volte che ho decollato con un aereo ho sempre pensato, sorridendo tra me, alle rumorose partenze del dottor Spè.
Più grandicello e a letto con la febbre, arrivava invece il dottor Astolfi. Chiamarlo era un problema, lui aveva il telefono ma noi no, e allora si andava direttamente a casa sua e si lasciava detto alla moglie. Astolfi, ché i telefonini non erano stati ancora inventati, doveva spesso passare da casa sua e chiedere alla moglie: “M’ha cercato nisciù?” e la moglie gli buttava il foglio con la lista delle chiamate dalla finestra. Così poteva succedere che Astolfi arrivasse dopo dieci minuti o dopo un paio di giorni dalla chiamata.
Quando diceva: “C’ha le placche su la gola” mi si gelava il sangue: erano punture. Le punture le faceva mamma, solo che non le sapeva fare. Aveva comprato, allora, una specie di balestra, metteva la siringa nell’apposito spazio,caricava la molla, appoggiava il tutto sulla mia giovane chiappa, premeva il bottone e la molla scattava. Scattava così forte quella cavolo di molla, che l’ago mi passava da parte a parte, e poi quando mamma mandava giù il liquido denso in due millesimi di secondo per fare prima, mi entrava dentro il fuoco del camino.
Mamma tornava dopo un po’ per sentire se avevo la febbre, mi poggiava le labbra sulla fronte,mi baciava insomma, non so se quel sistema di misurazione fosse affidabile, so però che sono stati i baci più belli che abbia mai ricevuto.