Le storie della tradizione: lu pranzu de lu spusaliziu

di Cesare Angeletti

 matrimonio

Finita la cerimonia in chiesa gli sposi ritornavano a casa dove, appena giunti, li attendeva una importante cerimonia. La madre dello sposo (oggi sòcera ma allora si chiamava mamma e le si dava del voi) si metteva sul terzo gradino della scala che portava alla loggetta dove c’era la porta di casa. Tutti i parenti e gli invitati si mettevano in cerchio tutto intorno, la sposa restava in piedi in fondo alle scale e la sòcera le porgeva, in silenzio, un pizzittu de pà’ a voler dire “Tu je devi da dà’ sembre da magnà’!” (pappa sempre pronta per il marito), poi un fusu (la conocchia) che significava: “Lu devi da vistì’ per tutta la vita!”, poi tre acini di sale grosso equivalenti alla raccomandazione di usare sempre il cervello. Infine le regalava una catenina d’oro con la medaglietta della Madonna, o con il Crocifisso, dicendole: “In questa casa c’è la pace”. La sposa, istruita da sua madre o dalla nonna, rispondeva: “Se ce la tròo ce la lasso!” Come a voler dire: “Sì, va bene, ma tu non m’imbrogli perché se andrete d’accordo staremo tranquilli ma se ve ‘mmazzerete comme li purchitti unu co’ l’atru non daciàte la corpa a mme!” Siccome la madre le aveva donato, quando aveva compiuto i 20 anni, una collana di corallo con i pendenti si poteva sapere se fosse sposata guardandole il collo. La donna maritata indossava due collane mentre la signorina solamente una. Conclusa questa cerimonia iniziava il pranzo. I tavoli erano apparecchiati dentro la capanna e gli sposi avevano il posto centrale, se gli invitati fossero stati numerosi veniva attrezzata una copertura, con paletti di legno a reggere un tendone, in modo da allungare la capanna. Gli sposalizi si facevano in genere d’estate e questa copertura serviva per ripararsi dal sole. Il pranzo cominciava con i brindisi augurali sotto forma di strofe rimate e se ne occupavano lu curàtu (il parroco) o lu fattò’, che adèra li più strutti (che erano i più istruiti), ma anche da qualche parente più spilligritu. Rimase alla storia il brindisi di un fattore, che era imbranato per queste evenienze e che, ispirato da un raggio di sole posato su una quercia, disse: “Lu sòle vàtte su la cerqua… – e, non sapendo come continuare, rengojonitu, concluse con un classico – viva li spusi!” Una volta un colpo di vento fece volare via il tendone e il sole menava forte, per cui un contadì’ si alzò tutto sudato dentro il vestito della festa e sgagghjò:Viva li spusi, viva lu fattore, vuà stéte all’ombra e nuà stimo a lu sòle!” Il pranzo era una avvenimento davvero importante. S’iniziava a mangiare verso mezzogiorno e si arrivava anche fino al calar del sole. Il primo, anticamente non c’era l’antipasto che è venuto in uso in tempi più recenti (affettati con qualche acino di oliva), era la stracciatella. Ricordo, adèro fricu, un cristià’ di Macerata che quando andava ai pranzi si metteva seduto, dava la mancia al cameriere dicendo: “Portéme la stracciatella fino a quanno non te dico vasta!” Era capace di trangugiarne anche sette, otto piatti. Poi si alzava, salutava gli sposi con un cenno della mano e se ne andava. Era conosciuto da tutti e le persone s’incantavano a guardarlo, quasi fosse una bestia rara, ma a lui non importava, riempitosi lo stomaco di stracciatella se ne andava via. Dopo la stracciatella c’era l’allésso co’ la cicòria. Poi il piatto forte: li vingisgrassi seguito dall’arrosto misto delle bestie di casa (oche, polli, papere, faraone, vitello e agnello). Come contorno si passavano ‘nzalata mischìa co’ li pumidori, li citrioli, lu sillirittu e la cipolla. Finite queste portate si passava alla frittura co’ la carne mischìa, la jìa ‘mbuttita, la crema a tucchitti, le zucchette, le patate, li marignà’, tutto ripassato in pastella e fritto in padella. Giunti a questo punto, dopo che tutti avevano ripreso varie volte ogni portata, toccava al dolce. Anticamente non c’era la torta. Il dolce era di crema gialla, condita con l’archemèse per dare il tocco di colore rosso e con il cacao per il marrone. Si concludeva con l’orzo, seminato dai contadini sul bordo dei campi di grano, poi abbrustolito dalla vergàra, rinforzato co’ u’ sgrizzu de mistrà che il contadino faceva co’ l’alammiccu, strumento questo nascosto dentro una grotta con l’ingresso coperto dalle fascine perché, a quel tempo, la legge vietava di farlo in casa. Il finale era de lu ‘mmazzacaffè, un bel bicchierino di grappa anch’essa fatta in casa. Verso sera, salutati gli sposi, tutti andavano via e per strada si sentiva il concerto, de sopre e derèto, dovuto allo sforzo che faceva lo stomaco per digerire.

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