di Umberto
Nell’antica Roma per diventare “medico” non c’era da fare università o studi particolari: era medico chi, di fatto, faceva il medico. C’era da tagliare una gamba? Si chiamava il macellaio, che godeva di grande prestigio. Egli veniva pagato profumatamente, specie quando l’intervento era complesso e c’era da tagliare parecchio. In mancanza del macellaio si ricorreva al barbiere, al ciabattino o al tessitore. Se il paziente moriva il “chirurgo” godeva di assoluta impunità, salvo casi gravissimi come l’aver cavato l’occhio sano anziché quello malato, per cui suscitava le ire dei familiari che potevano vendicarsi: “Occhio per occhio!” La medicina romana era domestica, si tramandava cioè da padre in figlio. Non c’erano specialisti, in quanto lo specialista era lo stesso “medico” generico. In progresso di tempo cominciarono ad affacciarsi il chirurgo, l’oculista, l’otorino. Le donne si rivolgevano alla ostetrica piuttosto che al ginecologo, il parto avveniva in casa, anche perché non c’erano ospedali. Il primo ospedale che si ricordi era quello sull’isola Tiberina (oggi Fatebenefratelli) ma si trattava soprattutto di un lazzaretto dove venivano ricoverati gli schiavi per i quali nulla voleva spendere il padrone, nonché coloro che avevano subito grossi interventi di chirurgia, o quelli che erano in fin di vita. A proposito i vita… i romani erano piuttosto fatalisti, cercavano di divertirsi e di mangiare quanto più possibile. Chi non aveva moglie, una compagna o una schiava, si procurava i favori di donne di malaffare che aspettavano i clienti nel trivio (da cui la parola triviale). Dopo aver fatto pranzi luculliani (ottimo l’abbacchio) si sdraiavano sul triclinio per digerire e fare la classica pennichella. Uno degli alimenti preferiti era il cavolo (di cui avevano scoperto le proprietà antiossidanti), preziosa era l’urina di chi aveva mangiato questo vegetale per disinfettare ferite o uccidere batteri. Chi mangiava il cavolo vedeva altresì passare subito il raffreddore. I romani amavano molto lo sport, praticato soprattutto all’aperto e l’igiene: si lavavano spesso in casa facendo il bagno e andando poi alle terme per disintossicarsi, dimagrire e conversare. Vespasiano introdusse le latrine pubbliche attrezzate con acqua e scarichi. Avevano molta cura dei denti, quando morivano potevano portarsi dietro, in oro, solo le capsule e nessun altro oggetto. La vita e la morte erano sottoposte al volere degli Dei. Furono Ippocrate e Galeno, due luminari dell’antichità, a studiare in modo scientifico e razionale le malattie. Ancora oggi si parla di Ippocrate quando il medico, prima d’iniziare la professione, deve giurare di rispettare una certa deontologia. Galeno scrisse qualche centinaio di opere di cui solo una minima parte è giunta fino a noi. Quando il farmacista confeziona egli stesso (e non la casa farmaceutica) una medicina si parla di preparato galenico. Ippocrate e Galeno erano seguiti da validi discepoli e disprezzavano tutti coloro che esercitavano l’attività in modo approssimativo, senza cognizione di causa e, spesso, senza sapere né leggere né scrivere. L’ambulatorio era come una qualsiasi bottega, attrezzato con qualche cassapanca e sedia, una lettiga, una cassetta per gli strumenti, bende, anfore con acqua, olio e vino, utile quest’ultimo in mancanza di anestetico. Ovviamente non c’era prevenzione per cui ci si rivolgeva al “medico” quando il male era a uno stadio avanzato. Più che curare la malattia ci si limitava a lenire la sofferenza. Dall’inizio della Repubblica alla fine dell’Impero (periodo piuttosto lungo) le situazioni sopra descritte subirono graduali trasformazioni e miglioramenti.