Lu spusaliziu

Le storie della tradizione,

di Cesare Angeletti

 matrimonio

Il fidanzamento, come avete letto nel precedente numero de La rucola, era lungo e tribolato perché la coppia non poteva stare mai da sola: o c’era la madre di lei, o una zia, una sorella, oppure qualche fratello sempre di lei ma, alla fine, arrivava sempre il matrimonio. Anche per questo avvenimento c’erano le regole, specialmente una, sacrosanta! I maschi si dovevano sposare in ordine di età e anche le femmine, ma la regola per queste era meno severa in quanto, all’epoca, c’erano 7 donne per ogni uomo, quindi, quando capitava, trovando una scusa si combinava egualmente il matrimonio. Il primo a sposare doveva essere il primo nato… ricordo che a un contadino dei terreni amministrati da mio padre je s’era fidanzatu lu secunnu fiju e lu più granne non ce penzava porbio! Ebbene, dopo 12 anni mio padre e lu curatu si sono imposti con quel contadino favorendo il matrimonio, pur fuori dalla regola, perché in quella casa, essendo morta la vergara, tutti quegli uomini da soli non potevano stare. Ce vulìa ‘na vergara nòa che avèsse dato ‘na rcorda su a la casa e a li cristià’ che ce cambava drendo! Quando il mediatore (lu ruffià’) aveva concordato il matrimonio e le due famiglie erano d’accordo, si stabiliva la data che avrebbe dovuto essere, almeno, un anno dopo, perché la vergara doveva avere il tempo di allevare gli animali per il pranzo e mettere da parte tutto quanto sarebbe servito per la magnata. Anche per questo la donna di casa doveva essere precisa: li puji, le gajine, l’oche, e le papere dovevano arrivare giusti per la data del matrimonio, perché se non fossero “arrivati” non si sarebbero potuti cuocere, se invece fossero ingrassati troppo presto avrebbe continuato a mangiare a sbafu, non sarebbero cresciuti e lu vergà se ‘rrabbiava pe’ lu sprecu. Le feste erano tre. Due con le sole famiglie e la terza, lu spusaliziu, con tutti i parenti e il vicinato. Nel primo incontro le famiglie, in presenza di testimoni, gente fidata, scriveva o faceva scrivere (se loro non lo avessero saputo fare) il contratto di nozze. Su questo pezzu de carte, qualcuno originale ancora se ne trova in giro, si scriveva tutto ciò che essa portava de dote, l’accungiu e quello che ci-avìa issu. La dote si chiamava accungiu e serviva per la festa grande, la terza, e questo spiega il modo di dire, quando si sistemava qualcuno a forza di bastonate: “T’ha ‘ccongiato pe’ le feste!” Le famiglie avendo poco, la faccenda si sbrigava presto ma… se putìa sparà’ allora fra li du’ vergà’ c’era la guera! “Io a fijema je daco 28 de tutto!” – “Io je daco ‘na vèlla manzétta!” – “Allora fijema se porta 36 de tutto!” e si andava avanti con questa disputa, tanto che uno di Porto Recanati rimase famoso perché, alla fine, urlando, disse: “E allora fijema de dote se porta 100 de tutto e una der so!” (E allora mia figlia di dote porta con sé 100 pezzi di ogni componente del corredo e una di suo, la sua virtù!). La seconda festa avveniva in casa di lei e c’era il trasporto dell’accungiu su lu virocciu. Dopo che le due famiglie avevano pranzato insieme si caricavano sul biroccio la cassa con la dote della sposa, la pettiniera e qualche altra piccola cosa che la sposa desiderava portare con sé e si andava nella casa dello sposo. Da quella cassa, per caso, quasi ci fossero finiti non volendo, uscivano subito fuori i pezzi più belli del corredo, così che tutti potessero vederli. La terza festa, a casa di lui, era lo sposalizio. La vergara per tempo prenotava uno di quei cuochi che cucinavano in giro, specializzati nei pranzi da matrimonio, che aveva tutta l’attrezzatura: tavoli, sedie, bicchieri, posate, piatti e quanto serviva in cucina per 200 o 300 invitati… e iniziava la trattativa: “Io vojo jeci lire a persona…” – “Scì, però l’oche, li puji, le papere e le gajine ce le metto io!” – “Allora facimo otto lire!” – “Scì, va vè’, ma io ce metto pure la farina, l’òe, l’ojo…” E lu còcu calava ancora… Un giovanotto, che una volta aveva assistito alla trattativa, quando morì il padre e il fratello maggiore jétte pe’ lu mortoriu, costui, ritornato a casa disse: “E ‘n gorbu se quanto costa lu mortoriu!” al che il giovanotto, di rimando: “Ma tu je l’hi ditto che lu mortu ce lu mittimo nuantri?” Ma questa è un’altra storia…

 

 

A 4 persone piace questo articolo.

Commenti

commenti