di Cesare Angeletti
Oggi un ragazzo, quando è interessato a una ragazza la saluta, ci parla un po’ poi, se tutto va per il verso giusto, la sera se la porta a letto. Ieri la faccenda era un po’ diversa. Intanto alle ragazze non fidanzate non era consentito parlare con i giovanotti e quando uno di questi andava a casa di lei (all’epoca non c’era il campanello elettrico) la giovane, una volta aperto l’uscio, stando da sola accanto alla porta doveva dire: “Spettéte che chjamo a vabbu o a fratému!” Altrimenti, se si fosse messa a parlare, sarìa stata mintuata come una poco per bene e non avrebbe più trovato un marito: ci stava sette donne per ogni omu… e allora, capirete… Solamente durante il periodo de lo mète e de lo vatte, dovendo lavorare tutti insieme, i giovani potevano discorrere tra loro ma mai di fatti personali e, rigorosamente, sempre con accanto la madre di lei che la tinìa d’occhju. Solo con gli sguardi, al tempo del ballo, si potevano contattare, o con gli stornelli e le serenate. Il mio caro maestro Giovanni Ginobili aveva scritto: “Canta joénottu mia, canta a vatoccu: se non ce sai cantà’ caccéte ‘n’occhju!” Sì, meglio essere ciechi che non saper cantare! Lo spasimante buttava là lo stornello e lei rispondeva, sempre cantando. Se fosse andata bene la risposta sarebbe stata vaga e ciò avrebbe significato “sì”, perché lei non si poteva sbilanciare. Infatti un detto antico fa così: “Quanno ‘na signurina dice no vòle dì’ forse; quanno dice forse vòle dì’scì; quanno dice scì… non adè più signurina!” Oltre lo stornello c’era la serenata che si faceva tra lusco e vrusco, al calar del sole, e solo in tempi più moderni spostata di notte. Questa aveva tre svolgimenti. Il cantante, accompagnato dall’urghinittu, cantava un paio di canzoni da ballo per poi attaccare con una d’amore; se ne fosse stata una sola avrebbe voluto dire: “Eccomi, sono qui a presentarmi, fammi sapere qualche cosa!” Lei, se la cosa je scunfinferava, nei giorni successivi, di nascosto, tramite un’amica, dava sue notizie; se, invece, rimaneva in silenzio… Quando le canzoni d’amore erano due significava: “T’agghjo fatto la corte e tu m’hi mannato a quillu paese, adesso te ce manno io davanti a tutti!” Nel momento in cui le canzoni d’amore erano tre… ebbene, era una dichiarazione di amore eterno! Lei stava sempre dietro le tendine della finestra della sua camera, non poteva aprirle ma, se avesse gradito, avrebbe acceso il lume e lo avrebbe posto sulla finestra. Un segnale a dire: “Sì!” e se fosse intervenuto il padre lei avrebbe spiegato: “L’agghjo ‘ppicciatu perché a coce, vicino a la finestra, adesso che s’è fatto scuro, non ce veco più vène”. Tutti sapevano tutto ma tutti stavano zitti. A questo punto lui faceva intervenire lu ruffià’, il mediatore, il quale doveva convincere le due famiglie che il matrimonio sarebbe stata la cosa migliore da fare. Se il sensale fosse riuscito a concludere il “contratto” avrebbe avuto diritto, come pagamento per il lavoro portato a termine, a una camiscìa vianga e a ‘na smalletta pjna de cose da magnà’. Il fidanzato era autorizzato a frequentare la casa di lei dalle sette alle otto di martedì, giovedì e sabato e, successivamente, quando la cosa aveva preso piede, poteva restare a pranzo la domenica e le feste recordàte. I due non potevano stare da soli: o era presente la madre di lei, o un fratello o una zia. Ricordo che da ragazzino andavo a giocare con i figli dei contadini dei terreni amministrati da mio padre, fattore, siti lungo il Chienti e portavo con me due canne da pesca attrezzate con il mulinello: questi bambini, che in genere pescavano con un filo in fondo al quale c’era un amo, ne andavano matti. Una volta sono andato da un bambino, con cui ci volevamo bene come fratelli, e lo trovai arrampicato su per una pianta vicina alla casa. Gli dissi: “Cala jò che ghjmo a pescà’!” al che mi rispose, quasi piangendo: “Non pozzo, devo jugurà’ (prendermi cura, controllare) a sòrema che sta llì ‘n casa co’ lu vardascìu!” La madre era dovuta uscire e lui doveva fare la guardia alla sorella. Poi mi ha raccontato che sua madre, per fargli capire che mai doveva perderli di vista, lo aveva impaurito minacciandolo di brutto. Quando la vergara doveva andare a raccogliere la verdura per la cena diceva ai due innamorati: “Mettatéve ‘ffacciati su la finestra che dà verso l’ortu, perché ve vojo vedé’ sempre co’ tutte e quattro le ma’ sopre lu davanzale!” Era dura ma la legge era uguale per tutti per cui, siccome tutti dovevano sottostare al medesimo gioco e non c’era verso di sgarrare, era più facile da accettare. Ma voi chiederete: “Comme ghjava a finì’ ‘ssu fidanzamentu cuscì tribbolatu?” Beh… ve lo racconterò alla prossima puntata.
foto da guidapersposi.it