La storia di Macerata a piccole dosi, XX puntata

Liberamente tratta da “Storia di Macerata”,

origini e vicende politiche di Adversi,

Cecchi, Paci

 

Momenti affatto tranquilli

tra pericolo turco, banditismo e litigiosità dei maceratesi

 

La curiosa vicenda dei rematori

Nei primi del 1538 la Santa Sede, per il controllo del mare stante il pericolo turco, richiese rematori per la flotta ai Comuni della Marca. San Ginesio, località prossima ai monti, ne inviò 25 mentre a Macerata, nonostante un bando emanato appositamente, non si presentò nemmeno un rematore. Il vicelegato Tempestini, reiterò la richiesta per almeno 20 uomini e la rinforzò imprigionando alcuni consiglieri. Fu inviato il nobile Piero di Marcozzo Compagnoni a perorare una dilazione per Macerata in quanto i cittadini stavano entrando in forte agitazione. Il 5 aprile il cardinale De Cupis emanò un decreto per ottenere questi remiganti ma non ebbe successo, tanto che in luglio ancora si cercavano volontari: i maceratesi non amavano la vita sul mare! Addirittura quando il commissario apostolico richiese alla città 800 salme di grano per la flotta papale si rispose che non ve n’era la disponibilità.

 

La tassazione antiturca

Il pericolo turco si allontanò per ripresentarsi nel 1542 e Macerata dovette inviare 15 operai a lavorare alle fortificazioni di Ancona. Poi il commissario Ascanio Sforza, con il solito refrain di “Mamma li turchi!”, tassò in fiorini le principali città della Marca secondo la seguente tabella: Macerata 700, Camerino 5000, Cingoli 1300, Jesi 2500, Fermo 6000, Fabriano 1600, Recanati 1200, Fano 2000, Matelica 700, Osimo 600, Roccacontrada (Arcevia) 1300, San Ginesio 1300, San Severino 1700 e Tolentino 700.

 

Il fenomeno del banditismo

Gli sbandati degli eserciti di passaggio, gli esuli politici, i fuoriusciti della provincia e delle terre limitrofe condannati per delitti comuni, danno luogo al fenomeno del banditismo. Inizialmente si vietò di ospitare queste persone, poi si impose ai Comuni l’espulsione dei facinorosi provenienti dall’urbinate, dall’Umbria, dal Regno di Napoli, si proibì il porto delle armi e le adunate di più persone. Non bastando tali divieti e aiutando i parenti dei fuoriusciti i loro congiunti, il Legato proibì di trattare con i banditi senza il suo permesso, autorizzando l’uccisione dei banditi stessi e assicurando l’impunità agli uccisori. Norme drastiche che, però, ottennero l’effetto desiderato tanto che alla metà del 500 scomparve dalle terre maratesi la piaga del banditismo.

 

Gravi e continui litigi tra famiglie in città

In questo periodo il tessuto sociale di Macerata era dilaniato dagli odi famigliari. Terribili erano le ostilità tra i Pellicani e gli Alaleona che si protrassero per anni e culminarono con l’uccisione di Pierlorenzo Alaleona, il cui figlio, Camillo, si vendicò assassinando Lorenzo Pellicani. Lo stesso Camillo, mentre assisteva alla messa in Santa Croce, fu ucciso da un sicario della famiglia avversaria. I Pellicani dovevano guardarsi anche dai Compagnoni “delle stelle”, avendo Giulio ferito a morte Piertommaso Compagnoni. Il Comune, per pacificare le famiglie, ricorse ai buoni uffici dei Duchi di Urbino e di Castro e al cardinale Alessandro Farnese. Altre famiglie non erano migliori. L’avvocato curiale Matteo Giardini fu accusato della morte di Ludovico di Giuliano e il suo congiunto Francesco fu ferito da due sicari di Pompeo Virgini. Vincenzo Giardini uccideva Girolamo Tofini mentre Giambattista Graziani organizzò un attentato contro il suocero Giacomo Astorgi.

 

Il tranello con agguato finale

Nel 1538 Ferruccio Ferri, non riuscendo a trovare il momento per ammazzare il suo nemico Peruzzino Rotelli, gli inviò a Camerino, ove il Rotelli si era recato, lettere false per farlo tornare a Macerata e ucciderlo in una imboscata predisposta lungo il cammino. Il colpo, per quella volta, non riuscì ma il Ferri inviò sulle tracce del Rotelli, lungo la strada per Piacenza, il suo sicario Ettore Carboni che, associatosi con Antonio da Offida, riuscì nella funesta impresa.

 

I dissidi politici

La famiglia Pellicani era ostile ai Farnese, non così i Compagnoni “delle stelle” e i Ferri. A queste rivalità politiche risale la morte del capitano Annibale Pellicani avvenuta nel 1544 per mandato, se non per mano, di Ferruccio Ferri che, per il delitto, subì la confisca dei beni.

 

Un delinquente comune

Questo periodo non si è fatto mancare nemmeno i delinquenti comuni e su tutti costoro spicca la figura del capitano Francesco De Vico, che nel 1544 si vide confiscati i beni per i crimini commessi. Egli infatti, nel 1541, essen-dosi ridotto quasi in miseria assoldò due sicari di Morrovalle che, arruolati altri malviventi, assalirono e rapinarono Alessandro, Cencio e altri Lazzarini di Morrovalle. Alessandro rimase ferito gravemente mentre persero la vita Maurizio Lazzarini e Tarquinio Collatrani. Gli assassini rubarono 800 scudi e vasellame d’argento in casa Lazzarini, consegnando la refurtiva al De Vico. Appreso il sistema, per sistemare le sue finanze De Vico arruolò altri uomini in Abruzzo che commisero omicidi e rapine. Fu condannato a morte ma il 31 gennaio 1545 ottenne l’impunità. Una strana consuetudine dell’epoca permetteva agli uccisori di banditi di indicare un soggetto in cambio dei banditi eliminati: fu indicato Francesco De Vico che ebbe restituiti i beni confiscati e la libertà. Visse per lunghi anni beneficiando del frutto di rapine e uccisioni.

continua

 

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