di Cesare Angeletti
La parola pantàfaca potrebbe sembrare, a prima vista, quasi una parolaccia ma, in effetti, esiste sia nella lingua italiana che in quella, splendida, parlata dai nostri avi, il dialetto. Nella madre lingua il termine ha una spiegazione scientifica ed è la definizione di quella situazione che si crea quando, svegliandosi all’improvviso, si è pervasi da uno stato di angoscia che quasi ci paralizza lasciandoci scossi e frastornati. Alcuni luminari tendono a spiegare il fenomeno legandolo a una cattiva digestione dovuta alla pesantezza o all’eccesiva quantità dei cibi mangiati a cena e quindi alla necessità di un maggior afflusso di sangue allo stomaco per la digestione che, impoverendo il cervello, crea uno stato di semi incoscienza. I nostri nonni, suggestionati dai racconti dei loro avi, tramandati da nonno a nipote, davano alcune versioni diverse. Le nonne, quando il nipote raccontava il fatto, approfittavano subito, istruite dalle loro ave, per dare al piccolo una lezione e dicevano: “Tu non sei stato bravo, non hai dato retta a mamma e papà e allora il tuo angelo custode si è allontanato da te, per chiedere alla Madonna di perdonarti, e una strega ha approfittato della situazione per abbracciarti e portarti via ma l’angelo, tornato, è riuscito a salvarti. Non fare più cattiverie per carità altrimenti la prossima volta la strega ti porta via!” Il bambino, che magari la sera continuava a mangiare pesante non avendo, a quei tempi ancora conoscenza di norme alimentari, quando il fatto si ripeteva era due volte più impaurito ma, per lo meno e per un certo periodo, rigava dritto. Le donne, invece davano una versione diversa. Loro, istruite dai racconti atavici, dicevano che la pantàfaca era una delle tante anime vaganti che, per peccati commessi o per altri motivi, non avevano potuto raggiungere il purgatorio e chiedevano aiuto. I racconti avevano varie sfumature ma la trama era sempre la stessa: “Mentre dormivo, all’improvviso mi è apparsa un’anima che mi si è seduta sulla pancia ed era pesantissima, tanto che io ero immobile e avevo difficoltà a respirare e mi ha detto che non poteva andare in purgatorio se io non avessi fatto dire una messa per lei e non avessi recitato un triduo in suo suffragio”. Appena sveglia la prima cosa che la donna faceva, con l’aiuto dei parenti, era di vedere se, con la descrizione, potesse riuscire a identificare l’anima. Se ci fosse riuscita tutti sarebbero stati coinvolti nelle preghiere. Quando secondo l’identikit non si arrivava a capo di nulla, e questo succedeva spesso, si era obbligati moralmente a far dire la messa e a recitare il triduo. Diciamo che la venerazione per le “Anéme Sante” dei nostri nonni era veramente forte. Si riteneva che loro fossero il legame fra terra e aldilà e quindi nella vita quotidiana spesso erano invocate. Una cortesia era chiesta dicendo: “Fàmme ‘sta cosa e io te recito ‘na preghjera pe’ l’anéme sante tua de lu pugatoriu!” Oppure: “Famme ‘stu piacere pé’ l’anéme sante de lu purgatoriu!” In una ipotetica graduatoria di importanza, subito dopo la Madonna, sempre presente in tutto, c’erano loro: le anime Sante de lu Purgatoriu. Oggi siamo più realisti e più materiali e la pantàfaca è utilizzata per la pubblicità nello spot dell’uomo che ha mangiato troppo e si sveglia con il cinghiale seduto sullo stomaco. La pubblicità consiglia un ritrovato da farmacia; i nostri nonni, più pratici e legati alla natura, risolvevano il contrattempo con un bicchiere d’orzo e un’abbondante dose di mistrà, distillato di nascosto nella grotta e, liberato lo stomaco dall’aria con potenti e rumorose emissioni dall’alto o dal basso, tutto tornava a posto e la pantàfaca spariva di botto.