di Ubaldo Tantalocco
“Gnenoccia quanto è bellu” si diceva alla mamma del bambino per farle il complimento (sincero o di prammatica). E’ evidente che “gnenoccia” significa “non gli nuoccia”. E’ una parola scaramantica, che serviva per esorcizzare il malocchio, che poteva essere attirato sul bambino dal complimento, il quale, per quanto sincero e disinteressato possa essere, oggettivamente contiene in sé un substrato di invidia. In ogni caso, può suscitare invidia di altri. E’ probabilmente un’ultima eco del concetto degli antichi greci di “invidia degli dei”, verso le persone troppo belle o troppo ricche o, in genere, troppo favorite dalla fortuna o dal successo, le quali per tale ragione erano esposte all’ira di essi: era il peggiore destino cosa che poteva capitare a un comune mortale.
“Fare a sinno”: letteralmente, “fare a senno” = dare retta. “Fà’ ssinno… statte zittu…tira su, te compro le castagne no n-strillà”, scrive Giuseppe Procaccini nella poesia “La madre che accompagna il figlio alla scuola”. Sapete come risponde il figlio? “No, no n-ce vaco… no n-ce vaco più. Sputa sango la scola e chi la fa”. Tanta avversione per la scuola da parte del bambino si può spiegare forse in quello che la madre racconta più avanti al maestro: “jera lu direttore lu sgridò. E ppo’ je desse: “T’ha da rrecordà, se ‘n-atru jornu no n-te porti vè, po’ vinì Ccristu te faccio spellà!” Sempre lo stesso poeta nella poesia “La merla e il tordo”, traendo la morale della favoletta, dice: “Judiziu, figliu , che ssu questa vita ‘ngondri tranelli e ‘mbroji ‘gni momentu; chi tte ‘nzegna la via dritta e pulita tu faje a sinno e camperai contentu”.