di Cesare Angeletti
La nostra gente nei tempi passati non era dedita al vizio, solo qualcuno, ma raramente, comme se dice… mosche vianghe, giocava d’azzardo con dei professionisti, persone che venivano da fuori, questi la prima sera li facevano vincere perché poi, le serate successive, jé leàva anghj le mutanne! Ma erano casi assolutamente rari, da poterli contare sulle dita di una mano. In famiglia, invece, qualche partitella se la facevano assaporando il gusto di vincere e, soprattutto, quel sottile piacere di sfottere i perdenti. Sì, perché il nostro contadino era vonu comme ‘n pezzu de pà’ ma, per natura, godeva di più quando le cose andavano bene a lui e male a lu vicinatu. I giochi dei bambini erano di varia natura. Prima di tutto con le carte da gioco realizzavano le casette, mettendone due appoggiate in verticale in modo da farle reggere insieme, poi sistemandone altre due in orizzontale accostate ai lati delle precedenti, altre due sopra e così via, finghé no’ ‘rriàva un dispittusu che co’ ‘na cioffiàta je le vuttava jò tutte! se non fossero prima cadute da sole. Intrecciando le carte, con quattro si facevano li piattucci, inserendone altre questi diventavano piatti da portata. Li frichi giocavano a rubbamazzu (o rubbamazzittu), gioco conosciuto in tutta Italia: si poteva giocare in due oppure in quattro, si davano tre carte ognuno e se ne mettevano quattro scoperte sul tavolo; con carta uguale si prendeva carta uguale e ogni mazzetto posto davanti a ogni giocatore doveva avere l’ultima carta presa scoperta, chi aveva in mano quella stessa carta poteva “rubare” il mazzo al giocatore avversario. Vinceva chi terminava con più carte sul suo mazzetto. Oltre questo c’erano altri giochi tradizionali, la scopa e la briscola (in due o in quattro giocatori), il tressette o lo scopone scientifico (in quattro) con dieci carte ciascuno ogni partita. Giochi più particolari erano la corsa dei cavalli e la surichetta. La prima si giocava mettendo in colonna sopra il tavolo due carte di coppe, due di spade, due di bastoni e due di denari; in fondo, di fianco alla prima carta, si ponevano i quattro cavalli, due per parte. Ogni giocatore puntava la cifra stabilita, si mischiavano le carte rimaste, se arzàa le carte, e si voltava la prima: se fosse stata scoperta una denari sarebbe andato avanti il cavallo corrispondente e così via. Chi aveva puntato sul cavallo che arrivava per primo sulle otto carte poste sul tavolo vinceva la posta, se su quel cavallo avevano puntato più persone la vincita veniva divisa fra loro. La sorichetta, invece, era così: ognuno dei giocatori, massimo sei, puntava la cifra prestabilita uguale per tutti poi uno, mischiate le carte e fatte alzare, ne dava una ciascuno scoperta; chi prendeva l’asso metteva di nuovo la posta, chi prendeva il re prendeva la posta, chi invece prendeva la sorichetta (il quattro di denari) se pijava tutto! Su questo gioco si facevano, a parole, un bel po’ di scherzi perché surichétta ci si chiamava anche una parte femminile intima… Un altro gioco, quasi d’azzardo, era lu puzzu. Si decideva la posta, ognuno metteva denaro per un valore uguale per tutti e questo mucchietto di soldi era lu puzzu. Lo smazzatore chiedeva a chi era di mano cosa voleva fare, questo diceva una cifra ma poteva anche dire puzzu! Se, girando la carta scelta, fosse uscito un sei o di più avrebbe preso dal pozzo quanto aveva detto; se invece fosse uscito un cinque o di meno avrebbe dovuto aggiungere al pozzo la cifra scommessa. Se invece avesse detto puzzu avrebbe o preso tutto o messo tutto, raddoppiando così la posta in gioco! E quistu era un ghjocu che putìa anghj esse’ duru. Qui le battute erano tutte sulle carte basse: “Come t’è ghjta ogghj?” – “Lasséme perde’ che m’è scappati solo caregghjamorti!” E li caregghjamorti erano i quattro, vista la loro configurazione simile a una cassa da morto. Oppure: “Me s’è sgravata la moje de pegghjo e m’ha fatto tutti pigghjtti!” A voler dire l’uscita in sequenza di una sfilza di assi, due e tre, carte di nessun valore che, a prenderle, pegghjo non putìa ghj. Gli uomini, dentro la stalla, luogo caldo in inverno, si divertivano a “bestia” o a ruviscì (anche ruiscì), due giochi veramente d’azzardo specie se giocati con grosse somme. C’è stato chi (pochi per fortuna) ci ha perso tutto quanto possedeva e chi ci ha anche fatto debito per pagare le perdite. Comunque solitamente si giocava per divertirsi, per stare in allegria, per passare una serata insieme, senza pensieri, pe’ scordàsse le tribbolazio’ de la vita e lo fadigà’ de tutti li ghjorni.