di Ubaldo Tantalocco
Mi ha sempre incuriosito la parola “scuccu”, che significa “a capo scoperto”. Qui a Corridonia l’ho sentito, seppure rarissimamente, da persone più anziane di me. Penso che il termine sia ormai in via di estinzione. Nel “Glossario dei dialetti di Macerata e Petriolo” di Giovanni Ginobili ho trovato anche: “scuccà” col significato di “tagliare le cime degli alberi” e “scucchì”, che è un piccolo berretto.
Che le giovani generazioni si abituino a parlare correntemente nella vita quotidiana la lingua italiana è sicuramente un bene, soprattutto per loro stessi. Proprio davanti a casa mia c’è uno spazio verde, dove si radunano per giocare bambini e ragazzini. Provo un po’ di stizza, devo confessarlo, quando sento quelli (molti) che quasi puntigliosamente evitano il dialetto… perfino nelle parolacce! Merito, “per fortuna o purtroppo”, dei genitori. All’epoca mia solo i “figli dei signori” parlavano in italiano; quelli che dicevano “papà”, invece di “babbu o vabbu”. Perfino le nonne della mia generazione oggi insegnano a “parlare bene” ai loro nipoti. Tempo fa ho sentito una di tali nonne (di poco più giovane di me), che raccomandava al nipotino: “Non andare in giro scuccu”. In questi casi, sempre all’epoca mia, si diceva: “parla difficile e sbaglia facile”. Memorabile l’impegno profuso per parlare “difficile” da un commerciante di Corridonia per mostrarsi all’altezza della posizione sociale conquistata col duro lavoro, il quale disse: “Chi ce lo facessero fare di alzarci presto la mattina… quandunque abbiassimo i camanzeni pieni di ogni gamba di prodotti”.