C’era ‘na orda lu satollacciu

Il rispetto della tradizioni

 

satollo

 

A chi non è dentro il dialetto potrebbe sembrare che “satollacciu” sia una parolaccia, invece era un modo per dire che uno, in questo caso un animale, stava pancia piena. Sì, perché vorrei raccontare di quando, proprio alle bestie, per farle stare tranquille e beate je se facìa ‘ssa faccenna. Certamente anche le persone, uomini e donne, quando andavano a un pranzo di sposalizio e mangiavano come maiali (magari perché la fame era tanta quindi si approfittava dell’occasione) facìa lu satollacciu. Diceva un proverbio: “Voli fa’ magnà’ un fiju un jornu? Mannulu a u’ spusaliziu!Lu voi fa’ magnà un annu? ‘Mmazza lu porcu! Lu voi fa’ magnà’ vé’ e ‘bbonnante? Fallu fa’ prete!” Ma lasciamo da parte le citazioni erudite (strutte) e veniamo al satollacciu. I nostri contadini, da secoli, credevano che la Vigilia di Natale e la notte precedente la festa di Sant’Antonio Abate, il 17 gennaio, le bestie parlassero con Gesù Bambino e con il Santo protettore. Gli animali, di solito, erano goérnati in modo che avessero sempre il giusto cibo. Per alcuni c’era anche la possibilità di essere lasciati liberi per pascolare in giro: le galline andavano sgarufènne in cerca di vermi; i maiali se liberi trovavano un po’ di tutto, dalla janna caduta dalle querce ai frutti maturi sotto le piante e, se ci fossero arrivati, non disdegnavano pulcini e coniglietti, in modo da integrare il pasto con carne fresca. Infatti al maiale piace mangiare un po’ di tutto e la sua carne, con una alimentazione varia, viene più soda, meno grassa, a tutto beneficio della pista che si mantiene meglio e più a lungo. L’unico a non ricevere cibo, per antica tradizione tramandata da padre in figlio, era il gatto. Oggi gli animalisti si scandalizzerebbero ma i nostri vecchi non facevano teorie, loro volevano bene al gatto però, sapendo dell’istinto del felino, lo lasciavano nutrirsi cacciando secondo la sua natura. Il gatto era indipendente e facìa comme je pàre, tanto che a ogni porta, in basso, c’era la gattarola. Questa era un’apertura chiusa da una tavoletta di legno fissata in alto con una strisciolina di pelle in modo che potesse dondolare avanti e indietro sull’apertura. Il gatto, spingendo con la testa, spostava la tavoletta e poteva entrare e uscire da casa a suo piacimento. Per mangiare doveva cacciare. Che? Naturalmente i topi! Duvìa ‘cchjappà’ li surci. Così stava a pancia piena ed era libero di fare quel che gli pare senza dipendere da alcuno, agile e scattante, capace di prendere persino qualche uccelletto. Oggi il gatto è divenuto schiavo e sedentario, dipende da chi gli dà da mangiare e se lo lasciasse la padrona morirebbe di fame perché non sa più cacciare; i paesi sono pieni di topi e di ratti grossi come gatti e gli Amministratori spendono un sacco di soldi per le derattizzazioni. Dunque, tornando al nostro discorso, in quelle date particolari i nostri vecchi davano da mangiare agli animali, gatto compreso, ciò che più a essi piaceva fino a farli sentire sazi, satulli. Perché? Semplice, perché così sazi non avrebbero potuto parlare male del padrone a Gesù. Ciò almeno credevano i nostri vecchi. Certamente era un comportamento un po’ strano ma, vedete, loro erano abituati a rispettare le tradizioni in quanto erano state tramandate da li nonnisi e avevano il culto degli anziani che andavano sempre rispettati, sia da vivi che dopo morti, quando erano diventati anime sante del purgatorio. Quindi tradizione come legge imposta dal modo di fare degli avi ma anche, e soprattutto, come devozione profonda per la memoria dei defunti, che prima di loro avevano rispettato e tramandato la tradizione.

Cesare Angeletti

 

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