Ieri (Ndr: questo articolo è stato pubblicato sul mensile “La rucola” nel novembre 2024), Fernando il direttore e anima di questo foglio, mi ha prestato la pubblicazione degli atti del congresso di studi indetto lo scorso anno dal Centro Studi Storici Maceratesi, cui non potei assistere per cause non dipendenti dalla mia volontà.
Mi aveva incuriosito e ho subito iniziato a leggere il saggio del professor Florian Hartmann, dell’importante università di Aachen. A Montecò il cattedratico non c’era e già mi aveva incuriosito il fatto che in un convegno di storia locale intitolato “Il Maceratese e le Marche Centro Meridionali tra impero e papato (secc.X-XII)” fosse stato invitato un cattedratico tedesco, proprio di Bad Aachen, la città termale che i romani chiamarono Aquis Villa e il “Sanctus amor patriae dat animum” degli storici germanici dell’Ottocento fece diventare Aquisgrana. Tale invito mi sembrò pressappoco come “chiedere all’oste se il suo vino è buono” come recita il vecchio adagio.
Nella presentazione della pubblicazione, che già orienta il lettore ai desiderata del promotore della manifestazione, ho letto che “Florian Hartmann ha analizzato documenti legislativi, lettere, mappe di percorsi e altri materiali originali d’archivio, in gran parte presenti nella raccolta “Regesta imperii”. Ha esaminato anche altre carte originali e autentiche conservate in Germania: oltre 400 carte ufficiali per i soli ventisei anni dalla morte di Carlo Magno a quella del figlio Ludovico il Pio il quale, secondo tutte le fonti si recò direttamente alla tomba del padre subito dopo la sua morte avvenuta ad Aquisgrana nel gennaio dell’814. L’Autore, riferendosi a documenti originali attesta che Ludovico partì dall’Aquitania e raggiunse la tomba del padre, collocata nella chiesa del palazzo di Aquisgrana nell’aprile e vi si trattenne fino a settembre. Tutti i discendenti di Ludovico, a partire dal figlio Lotario, raggiunsero più volte l’Italia, ma (omissis) quei documenti provano che nessun imperatore carolingio si trattenne a lungo nelle Marche”.
Già nella presentazione del volume e del professore tedesco emerge la finalità del congresso: più che la storia di tre secoli della nostra regione il fine della manifestazione è smentire le tesi del professor don Giovanni Carnevale, con le buone o con le cattive. Sinceramente non capisco tanto accanimento per una tesi che i professionisti dell’argomento definiscono ridicola quando si sentono benevoli; io penso che dopo 30 anni da quando don Giovanni iniziò a parlare della Francia picena, se fosse stata la bufala che si vorrebbe, tutti l’avrebbero dimenticata e non sarebbe necessario per provare il contrario far venire un professore proprio dall’Aquisgrana tedesca. Veniamo ora al saggio dal titolo “Le Marche imperiali, una questione di metodo”, già il titolo è una dichiarazione di guerra verso chi, come me a esempio, non si è ancora reso conto che, scrive l’Hartmann o il suo traduttore “gestire una massa di fonti è una sfida enorme. Richiede un duro allenamento, uno studio che richiede tempo, una conoscenza molto approfondita degli strumenti pertinenti e molta esperienza. …Le università stimano che acquisire queste competenze richieda uno studio a tempo pieno di cinque anni!” E finisce la frase addirittura con un punto esclamativo!
Certo, noi poveri peones ci siamo tutti affacciati al problema ieri mattina (la mia prima pubblicazione è del 2013) e ci permettiamo di metterci il becco senza essere professori di storia. Ancora non esiste un ordine professionale degli storici come esistono gli ordini professionali dei Medici, Avvocati, Architetti ecc. Perché solo in quel caso essi potrebbero redigere e firmare legalmente in esclusiva saggi storici come si fa col progetto di un ponte. Stavo dicendo che noi “dilettanti” ci permettiamo addirittura di opporre delle conclusioni differenti, leggendo (in linea di principio) gli stessi documenti di cui tratta l’esimio professore di Bad Aachen che nelle conclusioni dichiara “i risultati di questo scritto che sono appena più di una panoramica sommaria, probabilmente non sorprenderanno gli storici qualificati. Tuttavia per coloro che non hanno familiarità professionale con la storia e l’analisi di tutte le fonti disponibili, qui si trovano indicazioni molto basilari sulle regole del lavoro storico scientifico” (pag 26). A parte il dàje e ridàje con lo scientifico che per la storia non c’è, penso che il significato di queste frasi che suonano un pochino presuntuosette, forse si è “lost in translation” (ndr: perduto nella traduzione), come il titolo del film del 2003 con la bellissima Scarlett, ossia il significato originale che voleva dare questo autore senza urtare la suscettibilità di nessuno, si è forse perso nella traduzione ed è arrivato distorto a noi lettori e lo accogliamo magari roboante come il carme di Joseph Haydn di perduta memoria.
Penso che il responsabile dei malentendu sia proprio la traduzione, perché da quanto ho letto, abituato come sono ad andare al sodo delle questioni, mi permetto di avanzare qualche riserva sulle elucubrazioni dell’Hartmann il cui saggio sostanzialmente non mira a illustrare un momento della storia medievale come da titolo del congresso, ma solo e sempre si sforza di dimostrare che agli imperatori carolingi e sassoni, delle Marche non gl’importava un fico secco e se ci sono passati qualche volta era proprio per caso. Non per smentire a tutti i costi, ma solo per coerenza con quanto ho scritto a riguardo con una certa convinzione, fermo restando che scripta manent, mi permetto giustapporre alcune mie considerazioni alla “scientificità” dei atti del congresso leggibili sul volume in questione. Principiando dalla presentazione di questo Autore tedesco, ci leggo (ed è riportato nello stralcio di cui sopra) “Ludovico partì dall’Aquitania e raggiunse la tomba del padre, collocata nella chiesa del palazzo di Aquisgrana”, orbene se Aachen fosse davvero Aquisgrana, oltre ad aver perso il suo nome imperiale ha anche perso ogni traccia materiale del Palazzo e soprattutto della tomba nella chiesa del palazzo, che nessuno ha mai trovato: né il Palazzo né la mitica tomba! Di conseguenza, o i cittadini di Aachen se ne sono sempre fregati della presenza imperiale e hanno distrutto tutto quello che c’era, o dobbiamo cercare altrove l’Aquis Grani dei documenti.
Ci sono ben tre saggi dal titolo Aquisgrani terrae motus factus est. Evidence for medieval earthquake damage in the Aachen Cathedral (Germany) e in questi lavori i molti autori hanno ripreso l’argomento, dopo un mio scritto contraddicente che quei terremoti siano potuti avvenire in Germania, per dire e ridire che nel sottosuolo del duomo di Aachen non c’è alcuna traccia di una sepoltura carolingia o di chicchessia, ma ci sono le crepe del terremoto (saggi consultabili su Academia.edu. mio accesso 11/8/2023). Queste “scientifiche” pubblicazioni in lingua inglese non sono sufficienti né per il presidente maceratese né per lo storico di casa, a impedir loro di dire che là c’è la tomba del Carlone, perché lo dicono i documenti. Ho la nausea nel ripetere che i documenti dicono che la sepoltura avvenne ad Aquisgrana, ma del sito i documenti danno solo il toponimo, non danno le coordinate GPS perciò è arbitrio personale metterlo ad Aachen dove nessuno ha mai trovato nulla in 200 anni e di recente è stato anche comunicato al mondo. Errare umanum est, sed perseverare…
Ma veniamo al saggio Hartmann: leggo che “metodologicamente è necessario distinguere fra fonti documentarie e narrative” mai cosa più sacrosanta fu scritta, i cronisti antichi erano troppo partigiani dei loro sponsor, ma metodologicamente l’Autore cita continuamente a suo supporto proprio una “narrazione” di un certo Thegan, le “Gesta Hludovici imperatoris”, poi cita anche Widukind di Corvey (così lo scrive) dimenticando di leggere che nella copia in Latino del Rerum Gestarum Saxonicarum, l’autore si dice “Corbeiensis”. Lui non lo sa, ma noi marchigiani sappiamo che qui oltre a scrivere “b” e pronunciare “v”, esiste una “regione Corva” in quel di Sant’Elpidio a Mare, a solo una dozzina di chilometri dall’Aquisgrana in val di Chienti, quindi a un tiro di schioppo dal monastero dello storiografo. Dovrebbe, il professionista della storia, aver compulsato in quei cinque lunghi anni di ricerche necessarie per dirsi specialista, qualche Urkunde di tal Federico Barbarossa e ci avrebbe trovato un diploma redatto in Nova Corbeia, e chiedersi cosa ci faccia Nova prima di Corbeia perché quello è il nome medievale completo di Corvey, ma Vitichindo scrive di essere Corbeiensis senza il Nova, perciò è un Elpidiense e non un Danese del sud.
Il diploma in oggetto è del 1152 firmato da Federico Barbarossa, dove possiamo leggere la frase “noster fidelis et karissimus monasterii, quod Noua Corbeia dicitur…” ergo se “la storia si fa con i documenti e non con la fantasia” come qualcuno ha sentenziato, i documenti si devono leggere, e leggerli TUTTI se possibile, e non solo quelli che piacciono. Per farlo ci vogliono anni, è vero, ma lo si deve fare, altrimenti New York diventa un ridente villaggio della Northumbria. Mi corre anche l’obbligo, seppur annoiante, di notare che Hartmann scrive, sempre citando Vitichindo di Corva, “Quasi incidentalmente, nel suo resoconto dell’incoronazione di Ottone I, menziona che il luogo della cerimonia, Aquisgrana, si trova vicino alla città di Jülich che prende il nome dal suo fondatore Giulio Cesare”. Questo passo l’ho letto anch’io e lo lesse anche don Carnevale. Io, non essendo un professionista della storia, ma un architetto, per la ricerca dei toponimi, sono uso consultare i catasti terreni dove i toponimi non sono mai cambiati da millenni, perché quando non esistevano i catasti geometrici il micro toponimo era l’unica indicazione per situare la proprietà dei fondi (oggi supplisce Google Earth). Orbene “Giulo”, in latino Iulo, è un micro toponimo di Pieve Torina, dove abbiamo anche un Monte di Giulo. E da qui ha origine la Gens Julia di cui il Cesare è stato il più celebre esponente. Vitichindo ne parla perché lì ci hanno dormito Ottone & C. la sera prima di scendere ad Aquisgrana. Purtroppo il viziaccio di andare all’estero e quando arrivati sul posto farci uno stanziamento e chiamarlo col nome del paesello natio è vecchio quanto il mondo. Capisco che Vitichindo, che scrive a mille anni di distanza da Cesare, usi il lemma “conditore” da “conditio” perché quel villaggio forse venne fondato dai progenitori del nostro generale. Chissà chi, fra di loro, trasferitosi in Germania (quella di Tacito) ha dato il nome del paesello natio al suo nuovo insediamento, e torniamo a New York in Inghilterra e Iulo in Germania.
A questo riguardo, per noi che non siamo addentro alla toponomastica germanica, sarebbe stato utile anziché mettere solo i toponimi tedeschi dei luoghi storici, metterci anche l’originale in Latino: così avremmo potuto considerare che Mogontiacum è l’antico nome romano di Monza e non di Mainz. Il professore scrive anche enfaticamente che “Ottone non toccò mai Le Marche!” (Ndr: …Montottone avesse il suo principio dall’Imperatore Ottone detto il Grande, il quale nell’anno 962 venne in Italia a’ danni di Berengario, passando per la dizione fermana…*) e io mi lambicco il cervello per capire chi cavolo si è inventato Montottone olim Monte Ottone, perché, non credo sia nato in onore della lega rame-zinco. Montottone, non è il solo “Monte” più il nome del “fidelis” (il nobile feudatario regio) che abbiamo nelle Marche, forse è il caso che gli storici facciano un pensierino anche sulla geografia. Anche il nostro medievista di Aachen dovrebbe farlo, così evita di scrivere a proposito di Ottone I, “i pochi giorni che intercorrono fra l’elezione a Magonza e l’incoronazione ad Aquisgrana rendono impossibile una permanenza in Italia”. La questione è che l’elezione avviene, nel testo latino, a Mogontiacum, importante sede anche longobarda, oggi Monza. A Monza abbiamo importanti vestigia antiche, che non ci sono a Mainz. Continuo col sottolineare che se si vuole demolire una tesi altrui, la si deve innanzitutto conoscere. Le incerte conoscenze dell’Hartmann sulla geografia dell’Italia e della Francia Antiqua (il cattedratico di Aachen mai nomina Notker di San Gallo che parla, appunto, di Francia Antiqua e Francia Nova) gli permettono, credo bona fide, di dimenticarsi che don Giovanni fu il primo a dire che la prima Francia era nelle Marche. Per scagliarcisi contro, le tesi di Carnevale dovrebbero essergli quantomeno note.
Quando parla di Ludovico scrive fra l’altro “Successivamente, Bernardo tornò da Aquisgrana in Italia.Quindi Aquisgrana non si trova in Italia e Ludovico, in questi anni, non si trovò né in Italia né nelle Marche”. Se il Nostro avesse letto qualcosa di Carnevale o mio, saprebbe che Le Marche, con Aquisgrana al centro, prima di essere nel Patrimonio di Pietro era Francia, quella Salica Picena, diverranno Le Marche con Albornoz (nel 1350 se non dopo), ed è più che giusto che se il monarca è in Francia, non possa essere in Italia, quell’Italia che Dante dice andasse da Marsiglia a Pola. Hartmann vuole ignorare che il Regno di Francia, quello che sarà dei Luigi, acquista questo titolo solo agli inizi del 1200, (prima era le Gallie occidentali), ma già c’erano la Francia Antiqua, la Francia Corta e la Francia Nova (oggi il Franken DE). Che poi scriva che Aquisgrana non è in Italia e le Marche lo sono, è una dichiarazione che non tiene conto di quei diplomi che proprio lui dice sono indispensabili per fare la storia. Gliene rammento uno, ma sono almeno una dozzina. Si tratta del diploma n° 80 del 21/10/843 (www.dmgh.de/mgh_dd_lo_i_dd_loii/index.htm#page/(51)/mode/1up- visitato nel 2022) La chiusa notarile recita: Signum (MF) Hlotarii serenissimi augusti (C.) Ervamboldus notarius advice Aglimari recognovi et (subscripsi?) Data XII kld. Novimb, anno Christo propitio imperii domni Hlotarii piissimi augusti in Italia XXIIII et in Francia IIII, indictione VI; actum Aquisgrani palatio regio; in nomine dei feliciter amen.
Visto che né Carnevale né io abbiamo mai detto che Aquisgrana sia in Italia, ma bensì in Francia, non credo proprio che questo diploma, come molti altri, possa autorizzare l’Hartmann a sostenere che invece è in Germania, vantandosi di aver consultato le fonti documentali. Sappiamo dalla storiografia che Lotario fece a botte con i fratelli coltelli Ludovico e Carlo, perciò è piuttosto improbabile che vadano, lui, la sua corte e i beneficiari dei suoi diplomi, nel Palazzo di Aquisgrana che si vorrebbe in Germania, dove regna Ludovico il Germanico, a proclamarsi Re d’Italia e di Francia. Lotario regnava per procura, era uno sbruffone o il notaio è un mentecatto e tutti gli altri testimoni analfabeti e sordomuti, visto che ogni atto era rogatus et vocatus? Ė un semplicissimo quesito di geografia. Forse il nostro relatore, preparatissimo in storia era sotto la sufficienza in geografia?
Non parlatemi della Lotaringia, una striscia di territorio larga meno di cento chilometri e lunga mille, messa fra i due nemici giurati di Lotario, è pura fantasia seppur necessaria alla causa tedesca perché è solo Lotario a firmare documenti ad Aquisgrana. Ovvio che se Aquisgrana fosse stata per tutti in val di Chienti, gli storici romantici non avrebbero dovuto inventare la Lotaringia. Chiudo la vexata quaestio perché concordo con chi scrive che la storia si fa con i documenti e non con la fantasia, ma ritengo per mia preparazione accademica e cinquant’anni di attività lavorativa in società multinazionali private, che le certificazioni, sia quando trattano di soldi come questa, sia quando servono alla storia, debbano essere lette fino alla chiusura notarile compresa.
* Storia della terra di Montottone nelle Marche di Achille Marini – 1863 (bibliotheca Regia Monacensis)
Medardo Arduino

17 febbraio 2025