Impegni lavorativi “fattibili” erano frequentissimi, spesso però il lavoro diventava gioco, come quando già all’età di otto o nove anni, comandato di portare al pascolo le due vacche e due o tre maiali, mi divertivo a montare a cavallo sopra la vacca più mite. Riuscivo a fare questo aggrappandomi al garrese e, mentre, la vacca era intenta a brucare, le appoggiavo un piede sulle corna, al che essa alzava la testa spingendomi sulla sua groppa. Mi accomodavo a pelo e da lì riuscivo a gestire la situazione anche nell’andare a riprendere gli altri animali quando si allontanavano. Mi sentivo importante: era un lavoro ma diventava un piacevole impegno. Pericoloso..?
A proposito di pascolare! Nel tempo in cui andavo a scuola non c’era l’ora legale estiva quindi, già in aprile, molto ma molto spesso prima di fare colazione e avviarmi per arrivare in orario a scuola, percorrendo a piedi i due chilometri e mezzo di strada, dovevo portare al pascolo i maiali (mi sembra ancora di sentire i miei genitori: vai… un’oretta!). La scuola elementare l’ho iniziata avendo come aula una capanna, per l’occasione svuotata dagli attrezzi agricoli, senza finestre e per porta un telaio sostenente una rete, quella rete che ancora si usa per contenere il pollame nell’aia. Capanna, questa, messa a disposizione presso il colono soprannominato Spuzzì. Poi, in attesa che fossero terminate le aule attigue alla costruenda chiesa dedicata alla Madonna del Latte, in contrada Varco di Loro Piceno, ci portarono in una casa poco lontana.
I rapporti tra adulti e alunni erano diversi da quelli odierni: i primi esercitavano il diritto d’insegnare, i secondi avevano l’obbligo d’imparare, anche “convinti” a suon di botte. È ancora molto vivo il ricordo di quando studiavamo i moti carbonari e le società segrete: una di queste storie mi appassionò a tal punto che, seguita la lezione, riletta a scuola e ripassata mentalmente, l’avevo imparata quasi come una poesia. Il giorno dopo il maestro mi si avvicinò e, con il suo modo di fare mi chiese: “Hai studiato?” Nella mia semplicità, visto che non avevo aperto il libro, risposi di no. Lui, di scatto, mi assestò un robusto manrovescio. Tra le lacrime protestai: “Ma io la lezione la sapevo!” M’interrogò e mi dette un bel voto che portai a casa insieme al ceffone. Non ricordo di aver raccontato questo episodio alla mia famiglia, ma questo comportamento era normale per tutti, non riferire ciò che era avvenuto a scuola perché comunque avevano ragione sempre i grandi. Chiunque mi conoscesse bene (vicini di casa, amici di famiglia) aveva il diritto di riprendermi.
A scuola ci andavo a piedi e, addirittura, per i primi due o tre anni percorrevo due chilometri e mezzo, circa, di sentieri e strade non pavimentate. Nei periodi piovosi percorrere quegli itinerari era una incredibile avventura: con il passare e ripassare, il fango diventava una melma dove le calzature affondavano generando l’effetto ventosa, per cui si poteva rimanere piantati e ci si liberava muovendo il piede in modo di facilitare l’entrata di melma e aria sotto il calzato (stivali di gomma, quando c’erano, scarpe recuperate con rattoppi e fondi in legno. Le scarpe buone si portavano in mano per poi calzarle appena arrivati sulla strada imbrecciata). Spesso succedeva che il piede si sfilasse dalla scarpa e, inevitabilmente, lo appoggiavi sulla melma e non avevi altro per pulirlo che le nude mani, con cui togliere al meglio lo sporco prima d’infilarlo nuovamente nella scarpa. Succedeva pure che il fondo della scarpa si staccasse, in questo caso si sfilava la tomaia dal piede, si raccoglieva il fondo e si tornava a casa con un piede nella scarpa restante e l’altro piede nel fango, per poi cercare di trovare la soluzione possibile a ogni problema.
Per ovviare a questi inconvenienti, anche nei periodi freddi, si faceva di necessità virtù: si andava scalzi fino alle vicinanze della scuola, della chiesa o del paese, dove c’era una fontana e lì ci si lavavano i piedi per poi indossare le scarpe, fino a quel momento tenute in mano. Usciti da scuola, terminata la lezione, forse per noia o per scaricare la tensione accumulata a causa di certi “rapporti sociali”, sulla strada del ritorno si accendevano liti furibonde senza motivo e senza esclusione di colpi. I calzini s’indossavano in rare occasioni. Per averli bisognava procurarsi la lana che era preziosa (poche pecore in giro rispetto alle necessità), lavarla, sbiancarla, filarla con il fuso, poi agucchiare i fili: tutto a mano! Ciò lascia capire la preziosità degli indumenti di lana che, quindi, si usavano con parsimonia. continua
Mario Graziosi
25 dicembre 2024
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