L’antichissima storia del popolo marchigiano: e se Roma fosse stata fondata da…

“Hoi frichì, svéja, se nun gimo a fondà Roma a la storia nun ce passamo!” Questa frasaccia può essere fatta dire a un Romolo dell’Evo Antico solo da un piemontese scarso conoscitore dell’idioma marchigiano, ma propone nella sua stramberia una profonda revisione della storiografia delle origini leggendarie dell’Urbe Tiberina.

Innanzitutto chiedo al lettore di perdonare questo incipit poco serioso, ma, dopo i tanti richiami di titolati cattedratici alla cultura con la C maiuscola e alla scientificità della ricerca storica, un poco di leggerezza dovrebbe rendere più scorrevole un pezzo che vorrebbe portare in sé ponderate riflessioni su quanto sappiamo, di detto e di scritto, sulle origini della Città Caput Mundi altresì detta Eterna. Il tentativo di scrivere in vernacolo marchigiano sta ad indicare in anticipo alla trattazione che, a mio sommesso avviso, i protagonisti della storica nascita della grande Città laziale non sono stati un gruppo di sfaccendati locali che, stufi di pascolare capre per Tito Tazio, si sono radunati sul Celio al seguito di un intraprendente gemello che invece di usare l’aratro per seminare, ha fatto la prima cavezagna intorno alla futura Urbe.

 Le ragioni per creare un nuovo insediamento non possono essere così semplicistiche come le lessi sul sussidiario di terza elementare, anche tenendo conto che le leggende erano il modo più semplice e gestibile per spiegare fenomeni di per sé complessi. Ho compulsato con la massima attenzione una dozzina di titoli sul web e con una certa delusione ho letto solo ciò che ricordavo dai tempi della scuola ovvero la leggenda di Romolo e Remo, Rea Silvia, Albalonga eccetera. Tutti concordano che la città viene fondata intorno all’Ottavo secolo a.C., ma nei testi compulsati nasce in modo astratto senza cioè una ragione per venire al mondo come è stato, per di più già bella e cresciuta come rivelano gli scavi archeologici. Ho trattato questo tema nelle mie pubblicazioni con Fabrizio Cortella, anche confortato da alcune considerazioni di Massimo Pallottino sulle popolazioni Medio Adriatiche.

Roma è con ogni evidenza il fenomeno storico condizionante la nostra civiltà, ma le ragioni sociali e “culturali” che stanno a monte della nascita dell’Urbe, così come raccontati dalla storiografia, sono carenti dell’antefatto che è fondamentale per gli accadimenti dell’ottavo secolo a.C. perché non trattano la situazione a monte e quindi le ragioni della sua fondazione. Manco i funghi nascono per caso, tantomeno una città che in un battibaleno poi conquisterà tutto il conveniente a conquistare. Le “città” da un punto di vista socioeconomico si possono definire “agglomerazioni di scopo”, queste situazioni hanno sempre una logica economica cioè uno scopo concreto, semplicemente perché fare un insediamento implica spendere un mucchio di risorse materiali che lapalissianamente non si creano dal nulla e principiano col fatto che gli umani devono mangiare due volte al giorno e non possono tutti essere “l’aristocratico” che astrattamente gli archeologi etichettano quando scoprono una ricca inumazione. Le ragioni di una città sono legate alla sua funzione territoriale cioè alle attività che è economicamente profittevole fare all’interno della sua cinta di mura.

Romolo, Remo, gli aruspici, fanno leggenda, ma realizzare una città non può essere un  fatto puramente leggendario, specie se avviene nell’ottavo secolo, ovvero in età storica, pertanto sono da ricercare ragioni concrete, soprattutto economiche, per fare una città nata già adulta. Nel nostro mondo le più antiche città che conosciamo: Ur, Akkad, Ninive, Menfi, Tebe, si formarono come centri di raccolta del surplus delle produzioni agricole e per questo scopo furono cinte da mura. Siamo però qualche millennio avanti Cristo, Roma non è così antica e non credo proprio sia nata spontaneamente dal raggruppamento nello stesso luogo di un certo numero di abitanti di piccoli villaggi dei dintorni come ho letto su qualche testo, perché questa è la dinamica proto urbana della tarda Età del Rame ed è un processo lentissimo, l’opposto della fondazione di Roma.

Nel panorama antropico centroitaliano degli inizi dell’Età del Ferro, Roma non esiste ancora, perché non ha ancora motivo di esistere, mentre esistono e sono piuttosto evoluti gli insediamenti cittadini Piceni ed Etruschi, caratterizzati dalle loro cinte di mura ciclopiche, spesso erroneamente datate addirittura in età romana. Mi corre l’obbligo di ricordare che le mura in grandi massi litici non sono una scelta capricciosa di un capetto, ma la onerosa soluzione che precede la scoperta della malta pozzolana (IX-VIII sec. a.C., con cui fare mura molto meno costose in sassi cementati, tipiche della romanità). Purtroppo la pietra naturale non consente datazioni di laboratorio come per i laterizi e i legni, perciò in passato ci si è affidati a congetture e ad autori classici che leggiamo nella ennesima trascrizione la cui affidabilità è tutta da verificare.

Nel convincimento che la Storia sia documentata in modo più veritiero dai prodotti materiali dell’attività umana piuttosto che dalle “cronache”, ho cercato una ragione concreta perché su alcuni rilievi di una vasta pianura paludosa (l’Ager Latus poi Lazio) potesse nascere una nuova città che da subito evidenzia un livello di civiltà globale che non può essere autoctono. Ho provato a rispondere alle questioni mai affrontate su chi fosse quel gruppo della società civile dotato di grandi risorse e cosa lo ha spinto a fondare Roma. Se guardiamo alla geografia della costa tirrenica vediamo che la nostra Urbe è giusto sul confine fra le comunità degli Etruschi della Toscana e quelle dei Magnogreci della Campania, in un tempo di grande potere delle due comunità. A una cinquantina circa di chilometri a sud della foce del Tevere c’è l’insediamento di Norba che vanta mura e strutture megalitiche, proprio in quanto tali, costruite certamente molto prima della fondazione di Roma, e poco più a nord dell’Urbe ci sono le città murate etrusche. Nella geografia sociopolitica della costa tirrenica la Roma delle origini è un corpo estraneo fra la società etrusca e quella campana, in quanto posta praticamente al confine fra queste due civiltà che hanno caratteristiche abbastanza differenziate e certamente concorrenziali, Roma inoltre è una  città circondata da una piana paludosa buona solo per dei pastori e per questo fuori dai disegni territoriali di quei due popoli.

Perché fare una grande città proprio in quel sito inospitale e in ritardo rispetto alle altre è la spiegazione da cercare nei lasciti di cultura materiale nostrani che precedono la romanità. La regione medio adriatica ovvero la terra dei Popuni Salii, dimostra inequivocabilmente una civiltà manifatturiera basata soprattutto sulla trasformazione dei minerali ferrosi in manufatti d’uso in acciaio, specie armi. La regione medio tirrenica abitata dai Rasenna eccelle già da millenni nelle produzioni in leghe rameose. I Monti Metalliferi toscani sono la prima fonte del rame, ma sono scarsi di stagno, indispensabile sia alle leghe di bronzo e sia per abbassare la temperatura di fusione del ferro, qui da noi troppo poco da questo punto di vista. Le cave di stagno a cielo aperto, le uniche sfruttabili con attrezzi di legno e rame, sono lontanissime, addirittura nel Galles, dove i produttori italici si recano a fare scorte di quel metallo. La Sardegna appare ricca di minerali pregiati, ma essi sono poco accessibili perché sottoterra, minerali da raggiungere scavando.

Un evento tecnologico fondamentale per le manifatture centroitaliane dell’Età del Ferro è stata la possibilità dovuta al miglioramento delle tecniche di fucinatura, di realizzare i picconi in acciaio, adatti a scavare nella roccia. Da quel momento, e  siamo proprio nell’ottavo secolo, i giacimenti sardi sono sfruttabili, e questo fa risparmiare lunghi e costosi viaggi per raggiungere certe materie prime. Lo sviluppo dei territori isolani si evolve rapidamente da prevalente pastorizia a sfruttamento del sottosuolo, si cessa di costruire i Nuraghi e le importazioni di oggettistica magno greca e punica aumentano considerevolmente e indicano ricchezza. Risparmiare mesi e mesi di viaggio per i materiali è una pacchia insperata, ma favorisce con un’evidenza elementare le città della costa tirrenica. Le fiorenti industrie dei Piceni ne sarebbero criticamente svantaggiate, se qualcuno, dalla Capitale dei Salii non decide di creare un avamposto logistico per i collegamenti con la Sardegna.

Ovviamente c’è poco da scegliere, bisogna andare nelle paludi Pontine, lì ci sono solo pastori e non si va in conflitto concorrenziale con gli Etruschi. Ѐ in quel momento che nell’Urbe dei Salii, poi Urbisaglia, (su questo nome c’è un capitolo nel libro) magari in una riunione al tempio della Salute, un qualcuno che lo può fare e magari si chiamava Pompilio piuttosto che Romolo, matura la decisione di andare a costruire un avamposto sul Tirreno per poter convenientemente andare in miniera in Sardegna, infatti con Roma nascono anche le calate a mare di Ostia. Con queste premesse la storia del periodo iniziale della civiltà romana ha dei presupposti credibili. Direte senz’altro che è fantasia, io dico che è un’ipotesi ragionevole e spiegherò perché, comunque, visto il cumulo di leggende mai chiarite, una in più che male fa?

Fra le prove la toponomastica: nessuno mette in dubbio che Urbe e Roma siano metonimi ovvero si equivalgano ed entrambe siano sinonimi di capoluogo o capitale.  Il sostantivo è di origine picena e non romana, lo conferma l’uso piceno di pronunciare “V” la seconda lettera dell’alfabeto  cioè la “B”, infatti il corrispondente in lingua etrusca di “URB” è “ORV” ed entrambi significano capitale in quanto la “vecchia capitale” degli Etruschi, quando latinizzati, sarà detta “orv-vetus”, oggi Orvieto. Non siamo più in grado di stabilire se ci sia stata e quale fosse la differenza di pronuncia delle vocali “o” ed “u”, nelle due lingue affini, magari più o meno lo stesso suono. Conferma l’origine picena del sostantivo anche il fatto che il fiume di Roma ha un nome di etimo piceno: si pronuncia Tevere e si scriveva Tiber. Queste considerazioni non sono “suggestioni” solo perché le scrivo io, se approfondite un tantino la storia dell’Indoeuropeo vedrete che le regole per identificare le radici di quella lingua sono le stesse.

L’Urbe dei Salii per la storiografia negazionista è stata sempre e solo Urbs Salvia opera dei Romani, ma anche qui le parti scavate sono poche e mancano totalmente scavi che affondino oltre i due metri mentre il ciottolo di Tolentino è stato trovato a -3,15 metri, perciò c’è ancora speranza che si voglia scendere a cercare la città picena che non poteva essere un semplice conciliabulum di agricoltori. Non dimentichiamo che nei proverbi c’è sempre una piccola verità e ad Ascoli si dice “quando Ascoli era Ascoli, Roma era Pascoli” mentre ad Urbisaglia si dice ancora “ ‘na ‘orda qui era Roma”. Una ultima considerazione è la struttura urbanistica a impianto quadrato sia per l’Urbe dei Salii sia per l’Urbe tiberina, entrambe della medesima estensione e tracciato viario (vedi foto sotto).

Un’ultima semplice considerazione è lo sviluppo a una velocità impressionante del potere e della organizzazione della città eterna: la “cultura sociale” ovvero l’organizzazione che sostiene la produzione della ricchezza senza la quale non  c’è sviluppo, non può essere nata improvvisamente senza uno scopo, senza una ragione economica e il coinvolgimento di grandi capitali, Roma non può messere che il frutto di una grande esperienza pregressa ovviamente estranea a Tito Tazio e ai Sabini abitatori dei villaggetti dei dintorni, visto il successo dell’Urbe tiberina anche gli Etruschi (vale a dire gli ultimi dei sette re), sono andati a fare business sul Tevere. Quando Roma, anche per l’apertura dei mercati spagnoli e gallici, ha successivamente acquistato una supremazia anche sulle città dei suoi fondatori, per questa supremazia è naturale abbia “ritoccato” pro domo sua le memorie della fondazione. Nel racconto non ho lasciato alcuna parte alle donne, e il “ratto delle Sabine” ha sempre il sapore delle leggende maschiliste, ma introdurre la figura di Nerio Menerua, poi Minerva, uscirebbe dallo spazio consentitomi dal direttore, ne riparleremo.

Medardo Arduino

23 novembre 2024

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