Rodi, 1943 – Io, Aiscè e l’armistizio, ovvero storia di guerra e d’amore di un tenente

Avevo letto Theophile Gautier fino alle quattro di notte: ho spento la luce e ho iniziato a contare i numeri, che un po’ per volta si sono trasformati in cose e in persone, in ricordi di queste lasciate indietro nei viali del passato, nelle gallerie del tempo… Roma, Pola, Firenze, Tripoli, Bengasi, Rodi, Turchia, in un lungo cammino vertiginoso, percorso forse nel giro di secondi, che terminava con una frase in lingua turca, sentita dove, come e quando..: “Ben senì ciòk seviorùm…” (Ti amo tanto), sentita unitamente allo squillare attuale del telefono.

Ho allungato automaticamente la mano sinistra dalla parte dove la sera metto il cordless e ho detto: “Sì?”; una voce freschissima, armoniosa, squillante come un campanellino d’argento chiede: “C’e Riccardo?”. “No – rispondo – qui non c’e alcun Riccardo.” – “Allora resto in linea, lo puoi chiamare..?” dice la voce, carezzevole. “Scusa, sai, ma è un’attesa inutile, perché ti ho detto che qui Riccardo non c’è…”. – “Ma puoi dirgli che ho telefonato io?” – “Senti, a che gioco stai giocando…, ti rendi conto che io non so chi è Riccardo, e neppure chi sei tu, e che stai sbagliando, e che sono le quattro, ed è curioso che non ci conosciamo e ci stiamo dando del tu…? Bene, allora buona notte…” – “Scusa, ma mi è venuto spontaneo perché mi è sembrato di avere già sentito la tua voce… mi piace, ha un calore, un suono gradevoli. Se vuoi saperlo, io sono Aiscè Meparè e mio fratello è Muzaffer, ma qui lo chiamano Riccardo… e tu come ti chiami?” Ormai mi sentivo in vena di scherzare, di stare al gioco, e risposi: “Veramente io non mi chiamo, sono gli altri a chiamarmi…” – “Va bene, sì, e allora come ti chiamano?” – “Il mio nome è Marcello”. Ho sentito un risolino argentino e birichino, e ho chiesto: “Che cosa c’è che non va?” – “Ah; no, niente… una volta ne parlavo con mie amiche che si misero a fare delle rime…” – “Ah, capisco, come ombrello, tinello, somarello, sportello…” – “Sì, ma anche come gioiello, fringuello, pennello, martello…” – “Però Martello era un soprannome, più o meno glorioso, del franco Carlo detto ‘Martello’, il condottiero che a Poitiers, in Francia, nella celebre battaglia del 732 d. C. sconfisse i mussulmani di Abdel al Rahmann, interrompendo l’avanzata araba nell’Europa Occidentale…” – “Però sai bene la Storia…” – “Beh, abbastanza: tante cose si imparano studiando e girando per il mondo…”.

A questo punto mi interruppi improvvisamente: come un lampo mi si rischiarò la memoria con elementi richiamati da ciò che stavo dicendo, sognando di dire: “.. girando per il mondo…, Aiscè Meparè, ma sì, a Rodi, era il 1943, subito dopo l’Armistizio…! In un istante, nel giro di una frazione di secondo, come in un film a grande velocità, tutto riemerse chiaramente! Il fatale armistizio! Io ero nell’Isola di Rodi, al Comando Aeronautica dell’Egeo…; l’attacco, l’aggressione proditoria (ma in guerra la lealtà è un errore che si paga a caro prezzo!) dei Tedeschi… il nostro Gruppo Aerosiluranti era stato trasferito, dall’Aeroporto di Gadurrà, nella parte estrema sud dell’Isola, da pochi giorni prima, all’Aeroporto di Kalamaki, in Grecia, ma i siluri e parte del materiale di volo erano rimasti a Gadurrà. Fino a poche ore prima i Tedeschi erano stati i nostri validi soccorritori, in circostanze estreme, in Africa Settentrionale, e noi i loro protettori in volo contro gli attacchi aerei inglesi…; ci conoscevamo tutti, con tutti i piloti e gli addetti al collegamento: avevo volato con il Maggiore Rossbaker (poi morto bruciato in volo), con l’allogeno Schalaudek, con Breitscheler (che parlava correntemente il dialetto fiorentino, essendo vissuto e avendo studiato in Firenze), con l’Hauptmann Wierheim, Capitano, di padre austriaco e di madre fiumana, addetto al collegamento tra Comandi Italiano e Tedesco, e buon anti-nazista!), e con altri, con cui tra un mitragliamento e un bombardamento e un altro giocavamo a biliardo, a scacchi, cantavamo Lili Marlène; e all’improvviso dovevamo considerarli nemici, sparare loro…; ci limitammmo, in  Rodi, a dichiararli nostri prigionieri, ma per modo di dire, perché li avevamo lasciati nei loro alloggi e venire a consumare i pasti nella nostra mensa Ufficiali, soltanto… in tavoli separati…!

Intanto quelli della Wermacht avevano invaso l’Aeroporto di Maritza e, durante una “tregua” scioccamente concessa loro dal Comando Superiore dell’Egeo, mentre noi permettevamo loro di raccogliere i propri feriti, portarono di nascosto rinforzi dentro le autoambulanze e si misero a sparare contro di noi. Allora era proprio la guerra! Dovevo fare qualche cosa, e credo di essere stato uno, forse il primo degli Italiani della (vera) Resistenza. L’11 notte, sfidando tutti i possibili pericoli (chi sapeva dove erano andati a finire i posti di controllo tedeschi, quelli italiani, dopo l’immediato sbandamento e disfacimento di Reggimenti interi e di quasi tutti i caposaldi…?) feci 70 chilometri con il mio autista e un Sergente armiere, dal Nord al Sud dell’Isola, per andare a distruggere i siluri, prima che i tedeschi li portassero via, senza i quali gli Aerosiluranti non potevano operare: in breve, raggiunte le “riservette” ai bordi dell’aeroporto, distrussi anche i motocompressori di aria, dato che i nostri siluri funzionavano ad aria compressa, senza la quale essi erano inerti, come un’auto senza benzina. Sembra che in quella notte dormissero tutti, italiani, tedeschi, greci, cani, e probabilmente anche i gatti, ma questi sono silenziosi, e non era il periodo delle loro effusioni erotico-canore. Due, tre volte avemmo la sensazione di percepire alcuni colpi di arma da fuoco, e non erano certo scoppiettii del motore della macchina.

Rientrai a Rodi, e mi diedi alla macchia, e feci bene perché già al mattino i tedeschi, compreso il Capitano Wierheim, sapevano che era stato il Tenente Pedretti a far saltare il deposito di Calato, e mi cercavano… Vivevo nella zona di Neocori, tra i greci (e le greche, gentili e “disponibili” fin da prima) e di sera e di notte, nonostante il black-out mi aggiravo lungo la costa Nord in cerca di un posto e di un mezzo per lasciare l’isola e riparare in Turchia, le cui coste più vicine sono a 23/25 chilometri dalla parte settentrionale dell’isola di Rodi, dalla “Cum Burnù”, la “punta della sabbia”, separata dal braccio di mare che viene chiamato lo “Stretto di Marmaris”, dal nome della principale cittadina che è quasi di fronte sulla costa turca, fatta di muraglie rocciose, alte 300-400 metri a picco sul mare per una trentina di chilometri, fino alla punta estrema dell’Anatolia. Una sera, in una località fra Nixi e Trianda, attraversando una vasta zona abitata da pescatori turchi, mi imbattei in una ragazza che si fece avvicinare senza timore, nonostante l’ora e la oscurità peraltro non ancora molto fitta in quella stagione. Parlava abbastanza bene l’italiano, come quasi tutte le giovani di Rodi, greche, turche, ebree: mi disse (ma l’avevo già capito) che era turca, che il nonno Osman -capo tribù- padre di Alì (padre della ragazza), i suoi zii e gli altri erano pescatori e che i carabinieri, ora al servizio dei tedeschi, avevano per ordine di questi sequestrato tutte le barche, e adesso essi non sapevano come fare per andare a pescare, loro unica fonte di reddito. Si era fatto piuttosto tardi e Rodi era lontana una ventina di chilometri e la strada, tra l’aeroporto di Maritza e la città, era molto sorvegliata; lei mi disse di rimanere, mi condusse a casa sua, mi presentò al padre e al nonno dicendo loro chi ero e perché ero da quelle parti. Essi, che odiavano i tedeschi, mi accolsero, mi fecero cenare con loro, e mi trovarono un posto per dormire.

Furono gentili e mi fecero sapere che stavano costruendo di nascosto una barca, non tanto per pescare quanto per traghettare clandestinamente i fuggiaschi italiani dalla costa rodiota a quella turca nelle notti illuni; ma non avevano remi lunghi: dissi loro che io sapevo dove trovarli e che alla prima spedizione sarei andato con loro in Turchia (cosa che non avvenne perché la costruzione era assai aleatoria e avrebbe preso molto tempo, e perché trovai un battellino di gomma, di quelli in dotazione ai nostri plurimotori per il salvataggio, e che, ancorché fosse ridotto in pessime condizioni, io riuscii a mettere in grado di navigare). La ragazza mi aveva detto il suo nome: Aiscè Meparè; dopo la cena lei prese un “chitarrone” a dodici corde e si mise a suonare abilmente uno dei fascinosi motivi orientali mentre una nipotina di sette/otto anni, molto carina, cantava e ballava deliziosamente sui tappeti che a dovizia coprivano il pavimento.

La notte Aiscè venne a trovarmi nel grande magazzino dei foraggi, nell’interno del quale la paglia era tagliata a spirale lungo le pareti fino al colmo, dove mi ero sistemato. Ci scambiammo alcune effusioni, ma le dissi subito che non era il caso di “approfondire” almeno in quel momento, per non esporci a una sorpresa da parte dei parenti e per le inevitabili, legittime conseguenze che, presso quelle genti, venivano espresse a colpi di forconi, anche in relazione alla violazione dei doveri dell’ospitalità, specialmente da parte di un Ufficiale italiano! “Hai ragione – mi disse – non qui: domani mattina andrò al bosco a raccogliere i funghi: dì ai miei che vai a Rodi o, meglio, che vai a cercare i remi, e poi vieni là”. Non so quanti anni avesse Aiscè, ma era molto giovane, forse dai sedici ai diciotto: comunque, molto intraprendente e disinibita come, in genere, nell’ambito del Mediterraneo Orientale. Il bosco era in pieno splendore: l’isola dell’eterna primavera, l’isola delle rose non si smentiva; verso metà Settembre era ancora in una continua fioritura: grandi cespugli di ibiscus, bianchi, rosei, rossi, screziati in varii colori, bianchi listati di viola, davano l’idea di essere in un Eden; la natura cedua si alternava con ampi spazi, fra alberi secolari, in cui si stagliavano piccole radure di smeraldo e immense aiuole con un’unica macchia di colore di intensi e grandi ciclamini! Neppure gli dèi dell’Olimpo penso che avessero talami così splendenti e accoglienti.

Lì non esisteva più la guerra, non c’erano gli orrori di cui fino a pochi giorni prima l’avevo vista, vissuta e sofferta, non c’erano mitragliatrici, siluri, bombardamenti, nemici o esseri ostili; c’era soltanto una natura meravigliosa, una meravigliosa creatura così “naturale”, affettiva, delicatamente femminile, dalle caviglie di gazzella, dai seni che appena superavano l’effimera convessità di un vetro di orologio, ma con due punte che affioravano prepotentemente sotto la tenue stoffa, dai grandi occhi quasi dorati, dalla lunga chioma castana, degna di Berenice; la carnagione serica, adusa alla intensa luce solare, ne aveva assorbito un fascino intenso ma insieme delicato; una creatura che era un inno alla grazia, un trionfo della bellezza della gioventù, un canto all’amore sensuale ma purissimo nella spontaneità della sua dedizione: ero affascinato dalla gentilezza che traspariva da ogni suo atto, dalla sua offerta così libera e disinteressata, in cui mi sembrava di percepire indistintamente un suo subcosciente senso di protezione e conforto verso un essere, un ragazzo quale ero ancora, che in ogni istante poteva correre incontro alla morte…. Poi, all’ultimo bacio mi disse: “Stai attento a dove vai…; se potrai, torna qui domani a questa ora; a mio nonno piacciono tanto i funghi…” e sorrise a sé stessa, oltre che a me, per questa sua umoristica e allusiva giustificazione. “”Anche a me piacciono immensamente questi funghi” – risposi stringendola delicatamente contro di me – Adesso raccogliamo gli ultimi di questa meravigliosa mattina…”.

E così fu, in un crescendo di estasi, al di fuori del presente, del tempo e dello spazio. A Nord Est si vedeva, fra gli alberi, il Mussa Dag, dalla cima innevata, in Turchia, poco oltre lo Stretto di Marmaris che mi divideva dalla salvezza; lì avrei potuto essere nei giorni seguenti, lontano dai fucili dei tedeschi: non mi avrebbero avuto. E così fu! Passò in un soffio questo pensiero e tornai nel bosco, vicino alla fanciulla. “Aiscè, ti prego, ripetimi quel che mi hai detto mentre…” – “Var, Marsilu, ciòk gusèl ciòk gusèl… ben senì ciòk seviorùm!” (Sì, Marcello, molto buono, molto bello, io ti amo tanto). “Sì, Aiscè, anche io ti amo tanto, te, così bella, così buona…”. Seguì una pausa… aggiunsi: “Aiscè, mash Allàh ou kàma…”, sarà ciò che Allah vorrà… Lo squillo del telefono mi riportò dal sogno alla realtà, accendere la luce, vedere l’ora, tutto in due secondi, prendere il ricevitore e dire: “Sì?” …dall’altra parte una voce femminile chiede: “C’è Riccardo?”.
P.S .: La prima telefonata, alle 4 del mattino (o della notte), era giunta in sogno; la seconda, alle 6 era stata vera;  la cosa strana è data dalla identicità delle due domande, in mondi così differenti, del sogno e della vita reale, circa la presenza o meno di “Riccardo”… Comunque, le vicende del sogno non erano frutto della fantasia: erano il ritorno dai viali del passato e dalle gallerie della memoria di un episodio di vita veramente vissuto.

Generale Marcello Pedretti

Generale Pedretti

19 ottobre 2024

Sii il primo a dire che ti piace

Commenti

commenti