Basta risalire a una cinquantina d’anni fa e rovistare tra i ricordi di scuola per far emergere un ricco campionario di punizioni corporali. Dalla classica imposizione a inginocchiarsi su uno strato di ceci, fagioli o sassolini, alle bacchettate sulle mani o sui glutei in numero differenziato a seconda della gravità del “reato” (o dell’umore del maestro), passando per la tirata d’orecchi, sempre in funzione d’infliggere un dolore fisico o una umiliazione a scopo correttivo del comportamento a cui la punizione era associata.
Il rituale era di solito fornito dalla tradizione scolastica: quasi sempre la punizione veniva somministrata subito dopo il “reato” (per essere efficacemente associata al comportamento da reprimere), di fronte alla classe (a scopo di edificazione collettiva: punirne uno per educarne cento) e a opera dell’insegnante stesso. Più spesso ne erano vittime i maschi per “colpe” riferite più al comportamento che all’apprendimento. Altri tipi di punizioni sono resistite più a lungo e in parte (con varianti e attenuazioni) si conservano nelle pratiche scolastiche attuali: rimaner seduti sul banco a braccia conserte, in piedi davanti alla lavagna o faccia al muro in un angolo oppure confinati vicino alla cattedra nel “banco della vergogna” (oggi -magari- solo una “sedia delle punizioni”), ricopiare più volte una stessa pagina di quaderno, addirittura girare per le altre classi col cartello descrittivo del “malfatto” o con le “orecchie d’asino” (una specie d’imbuto) applicate alla testa mentre tutti ridevano del malcapitato.
La creatività dell’insegnante ne poteva variare i dettagli: alcuni ti tenevano in piedi con un secchio d’acqua in mano, c’era chi usava caricare sulle braccia in estensione del “reo” i volumi dell’enciclopedia in numero proporzionale alla gravità del fattaccio, ma il cerimoniale prevedeva indicativamente anche una divisione dei ruoli: cinghiate, sculacciate e schiaffi a mano aperta erano competenza dei genitori, che di solito s’incaricavano di confermare l’autorità degli insegnanti col famoso “e io ti ci meno sopra”, tanto diverso dalla tendenza dei genitori d’oggi a giustificare il figlio e ad accusare l’insegnante di violenza su minore. C’era effettivamente una “coerenza” tra scuola e famiglia a conferma della giustificazione giuridica delle punizioni da parte della scuola che si diceva autorizzata ad agire “in loco parentis”: si riteneva che la scuola avesse sul minore tutti i diritti e i doveri del genitore, a differenza dell’attuale rivendicazione a sé da parte della famiglia del compito di educare, riservando alla scuola solo il ruolo di istruire.
È l’effetto del passaggio da una “società organica” dai valori condivisi a una pluralistica, che -tra vantaggi e svantaggi variamente giudicabili- ha prodotto anche a scuola l’atteggiamento difensivo degli insegnanti, come già esiste una medicina difensiva o un’amministrazione difensiva nei confronti degli utenti del servizio prestato. È stato l’Illuminismo (Locke) ad avviare all’inizio il ripensamento sull’efficacia -solo temporanea, non permanente- delle punizioni corporali in tutti gli ambiti, da quello scolastico a quello familiare fino a quello carcerario. Invece il Medio Evo, riprendendo il nesso mente-corpo della classicità (mens sana in corpore sano), aveva giustificato la mortificazione del corpo per sottometterlo al primato dello spirito; ma poi ci si è accorti che piegare con la forza il comportamento esteriore non facilita, anzi ostacola l’adesione interiore alle norme: nei regimi autoritari e totalitari si abusa delle punizioni perché lo scopo è ottenere l’ubbidienza, piegare la volontà e la conferma dell’autorità con la sottomissione delle masse (il messaggio implicito è che il più forte vince e decide e i conflitti si decidono con la forza), invece nei regimi democratici, in cui conta la partecipazione dei cittadini alla vita politica, serve l’adesione interiore alle norme e non basta dunque il “si deve far così”, ma serve aggiungerci perché, cioè serve la spiegazione.
Si è costatato che, anche a scuola e in famiglia, le punizioni corporali (che nell’immediato interrompono il comportamento represso) risultano alla fine controproducenti: da una parte aumentano rabbia e risentimento verso l’autorità, desiderio di vendetta e atti di vandalismo, profitto mediocre e abbandono scolastico, dall’altra parte alimentano i comportamenti distruttivi, l’ansia, la depressione e la disistima di sé. Si è visto inoltre che ricorrono di più alle punizioni fisiche i genitori e gli insegnanti nei momenti in cui non sanno altrimenti gestire la relazione coi minori. Sulla base di queste considerazioni i legislatori in quasi tutto il mondo civile hanno vietato le punizioni corporali come mezzo correttivo soprattutto a scuola ma non solo, anche per la crescente sensibilità sui diritti dei minori, fissati da Carte internazionali. Anche in famiglia si tende a evitarle, considerandole scorciatoie inefficaci ai fini della convinzione e pure pericolose per la salute psicologica dei figli.
La scuola è alla ricerca di alternative, come possono essere il rinforzo dei comportamenti positivi, gli interventi di ripristino a proprie spese dei danni arrecati ricercando su questi il consenso delle famiglie. Soprattutto genitori e insegnanti hanno capito che bisogna passare dall’obiettivo dell’obbedienza alle persone d’autorità all’obbedienza alle regole: a questo fine servono -in famiglia e a scuola- la costruzione condivisa con figli e studenti delle regole ritenute utili alla convivenza, la previsione di conseguenze positive e negative (comprese le punizioni in caso di trasgressione) e la fermezza nell’applicazione. Ma questo è un altro discorso, in vero decisivo per il futuro delle nostre comunità.
Enzo Monsù
10 ottobre 2024