La vendemmia era il rito di fine estate. Per noi bambini era associata alla fine delle vacanze scolastiche e alla ripresa della scuola, che nel dopoguerra iniziava – in tutta Italia – a Ottobre; ci coinvolgeva già nella fase preparato ria delle botti di cantina, le quali – appena svuotate del vino – erano state lavate e lasciate chiuse con lo zolfo acceso dentro per evitare la formazione di microbi. Prima del riuso andavano lavate con l’acqua calda e questa operazione era compito nostro, perché solo noi bambini riuscivamo a entrare con tutto il corpo attraverso lo stretto usciolo: lo facevamo dopo il test della candela per verificare che all’interno ci fosse ossigeno sufficiente per respirare.
Gli ultimi giorni prima dell’inizio della vendemmia erano sempre vissuti dalla famiglia contadina con un po’ d’ansia per il timore delle grandinate estive, che all’improvviso potevano mettere a rischio il raccolto fragile dell’uva matura. Quando succedeva scattavano tempestivi gli scongiuri e gli antidoti ancestrali: il nonno gettava sull’aia la catena del camino (chissà perché?) e cominciavano a suonare le campane che accompagnavano l’uscita del parroco per la processione a san Vincenzo e per le litanie di sant’Antonio.
Finalmente ci siamo. Armate di forbici, tutte le risorse umane di casa, vecchi e bambini compresi, si distribuiscono per la vigna, a cominciare da quella rivolta a sud: i cesti colmi di grappoli sono svuotati nelle bigonce oppure nelle cassette di legno lasciate in cima ai filari per essere caricate sul biroccio, rovesciate nei grandi tini, pronti per la pigiatura a piedi nudi: dopo un rapido passaggio nel catino, anche i bambini sono tentati a provare … per scappare dopo le prime punture d’api.
Il mosto si raccoglie nel grande caldaio di rame e la vinaccia rimasta alla fine sul fondo del tino è passata nel torchio a mano, il grande estrattore a vite verticale che continua a lavorare fino a notte inoltrata. Tutto il mosto sarà di nuovo riaccumulato nel tino e lasciato fermentare per qualche giorno, con lo scopo di trasformare gli zuccheri in alcool: il processo sarà favorito dal caldo naturale, aiutato se del caso da qualche braciere. Poi sarà versato nella botte dove i primi freddi di novembre faranno depositare le impurità e faranno schiarire il vino novello, che per san Martino (11 Novembre) si può finalmente assaggiare.
Tutto procede bene. Durante la prima luna buona (calante) di Gennaio il vino sarà “mutato”, cioè messo in botte al pulito e, depurato da ogni deposito, sarà in grado di affrontare anche il caldo estivo per essere bevuto, offerto e far festa. Sì, perché funzione e destino del vino in campagna sono festa, amore e convivialità, anche per affogare in esso fatiche, miserie e sventure, come nel frammento dell’antico (VI-V sec. a.C.) poeta greco Anacreonte: “Cenai con un piccolo pezzo di focaccia. / Ma bevvi avidamente un’anfora di vino; / ora l’amata cetra tocco con dolcezza / e canto amore alla mia tenera fanciulla”. Anzi, si può dire che il vino sopravvive pure all’amore se è vero il modo di dire anconetano che suona così: “Quando el pelo comenza a ‘ncanutì, / lassa la donna e mettete al vì”.
La festa nell’antica vendemmia cominciava la sera stessa a fine raccolto con la tavolata apparecchiata nell’aia o addirittura tra i filari e che finiva col ballo notturno: tutte le feste contadine, del resto, comprendevano sempre il lauto banchetto e avvenivano nelle fasi di fine raccolta produttiva per la momentanea disponibilità e abbondanza di viveri, l’eccezione festiva del consumo vistoso a compenso dell’ordinaria miseria, della fatica bestiale e della penuria alimentare. Infatti abbiamo interrotto la descrizione della vendemmia tralasciando almeno due appendici onerose: il mezzadro doveva, a norma dei Patti Colonici, consegnare metà dell’uva raccolta nella cantina padronale e poi lì provvedere alla vinificazione con giornate di lavoro gratuito e servile. Intanto soprattutto le donne di casa integravano il processo di vinificazione avviato con numerosi corollari: le ciambelle di mosto, la sapa, i “sciughetti” o “sughitti” (una polenta dolce di farina di granturco cotta col mosto e l’aggiunta di noci) e soprattutto il “vin cotto”, uno sciroppo liquoroso (sui 15°) utilizzabile come dopopasto ma anche come medicamento delle malattie da raffreddamento …
Enzo Monsù
19 dicembre 2024