Grazie ai ricordi diretti del maestro Fernando Mattioni, esperto della materia e figlio di un mugnaio, posso ricostruire uno scorcio di storia del mulino di Montecavallo, ormai scomparso e prima che cada nell’oblio completo.
Il mulino di Montecavallo si trovava a circa 500 metri dall’abitato del capoluogo, lungo la strada per la frazione Collattoni (il Comune ha dieci frazioni). Quell’opificio era stato costruito in pietra locale e aveva due macine, di solito si usavano una per il frumento e l’altra per i restanti cereali. Fernando ricorda il laghetto che azionava il motore idraulico: era formato dall’acqua limpidissima del torrente Piazza proveniente da Collattoni e da un torrentello che nasceva sotto l’abitato di Pantaneto. Lo stesso bacino di alimentazione (chiamato anche sforda) era circondato da un muretto di grossi mattoni; esisteva anche una piccola opera muraria che difendeva l’edificio del mulino dalle infiltrazioni d’acqua. Il complesso era di proprietà della Confraternita del SS. Sacramento di Collattoni. La produzione annua era di circa 150 quintali di farina di grano, 80 di farina di granoturco e 30 di altri cereali. Da ottobre a primavera il torrente Piazza aveva una notevole portata di acqua, per un piccolo tratto intersecava la strada, per attraversarlo a monte c’era una passerella di legno. Nel periodo di magra si attraversava anche passando sopra delle pietre.
Quando Fernando aveva 15 anni, intorno al 1949, Guido Giglioni, il mugnaio di Montecavallo, si rivolse a Renato, padre di Fernando, affinché lo aiutasse a mettere in piano la macina del grano del suo mulino. Fernando aveva aiutato più volte il padre in tale incombenza; quindi era capace e così il genitore lo delegò. Partì in bicicletta e percorse circa dieci chilometri. Trovò il mugnaio, un uomo sulla cinquantina magrissimo, di statura regolare, ricoperto di polvere di farina da capo a piedi, comprese le folte sopracciglia. Prima di mettersi all’opera Guido si sfogò con il ragazzino Fernando dicendo che il suo lavoro era pesante, non solo ma c’era anche la polvere bianca che entrava nei polmoni. Ricorda Fernando che era uomo di “farina e di acqua” perché doveva accedere anche in luoghi umidi come la volta, per sistemare il rotore idraulico (retrecine).
Il mugnaio aveva già vuotato il laghetto, dopo aver sollevato con l’argano la macina rotante, l’aveva appoggiata di lato, perché altrimenti quella riparazione non si poteva eseguire. Con l’occasione, prima di rimetterla in sede, l’avrebbe battuta con l’apposita martellina d’acciaio. Operazione chiamata rabbigliatura che rendeva più efficiente la macina. I due entrarono nell’umida volta muniti di mazzette e cunei (fiecche) di quercia e si dedicarono a riequilibrare e mettere in piano la macina. Era un lavoro di precisione che richiedeva ore. Dopo circa due ore di paziente lavoro, tutto andò bene e il mugnaio ringraziò e salutò Fernando che inforcò la sua bici per tornare a casa. Il mugnaio successivo a Giglioni fu Quinto Mattioni di Pantaneto con il figlio Sergio, fratello del padre di Fernando, che lo presero in locazione dalla Confraternita. Ma quella esperienza fu breve perché l’acqua del Piazza fu incanalata a Collattoni e condotta ad alimentare l’acquedotto di Camerino! Senza acqua non si macina più.
Per diverso tempo le due macine di pietra rimasero abbandonate fuori del mulino, Fernando avrebbe voluto una macina da esporre davanti al mulino di Fiume facente parte del museo della “Nostra Terra” di Pieve Torina. Si recò dal parroco don Giuseppe Luchini per richiederla, ma costui gli rispose che non poteva fare nulla perché non erano sue, ma della Confraternita. Fernando ricorda anche due pratiche del mugnaio. Quando il grano portato a macinare era troppo secco, per riportarlo alla corretta umidità si metteva in un cassone e si aggiungevano due litri di acqua per quintale. Un buon mugnaio era colui che riusciva a ottenere il massimo di farina e il minimo di crusca. Il risultato ottimale era 18 kg di crusca, 6 kg di cruschello (o tritello), il resto di farina di grano per panificare. Alcuni agricoltori poveri chiedevano al mugnaio di mischiare la farina con il cruschello: dalla panificazione usciva una sorta di pane integrale, che oggi viene molto consumato per il suo maggiore contenuto di fibre. Oggi i mulini ad acqua sono spariti o di loro ne restano solo ruderi, alcuni sono diventate piccole centrali idroelettriche, come il mulino di Gelagna Bassa di Fausto Barboni (https://www.larucola.org/2019/07/31/a-gelagna-esiste-un-sito-di-archeologia-industriale/), che si consiglia di visitare. I mulini fanno parte della nostra storia e delle nostre tradizioni.
Eno Santecchia
4 dicembre 2024