Una tassa “religiosa” ormai in disuso: la “Decima”, che si pagava in natura con il grano

Fino agli anni Cinquanta del secolo scorso era abituale anche a San Ignazio di Filottrano, a raccolto avvenuto, il passaggio del parroco e/o di un suo collaboratore nelle case di campagna per raccogliere la “decima”, un contributo alla vita dell’istituzione religiosa locale, a compenso della cura spirituale e dell’amministrazione dei sacramenti.

Siccome si pagava in natura, generalmente con parecchie decine di chili di grano, la raccolta veniva fatta con un furgoncino e, prima, con calesse e cavallo (in parentesi ricorderò un aneddoto di questo cavallo, al tempo di don Nazzareno Parasecoli: una volta gli fu rubato e lui ritrovò solo un cartello con scritto “U cavallu sta be’ – a biada ce l’ho – tu comprane n’altru – che dopo io c’er fo”). In verità, a raccolto fatto, passavano pure, allo scopo di raccogliere l’elemosina, i frati di Montefano e quelli di Cingoli; per “la cerca” passavano pure le varie confraternite religiose che poi organizzavano eventi. Io, seppure bambino, percepivo nel comportamento degli adulti di casa una diversità di atteggiamento: ai frati e ai “cercatori” si dava benevolmente, quasi per una maggiore simpatia verso l’abito o la persona, attingendo in misura approssimativa dal granaio di casa, invece l’arrivo del parroco per la decima era vissuto con l’ansia delle prestazioni dovute e regolate: non so se esistesse un tariffario o una regola -tacita o esplicita- che imponesse la misura della dazione, so che i miei pesavano il grano donato, curavano l’entità della donazione.

Era ciò che restava, nella consuetudine e nell’immaginario collettivo, dell’antico obbligo giuridico della Decima. In Toscana, nei terreni vocati alla produzione di oliva, la decima si chiamava “Olivella” e l’entità era fissata e trascritta anche negli atti di compravendita, una sorta di servitù. Il nome “decima” deriva dalla tassa -corrispondente, appunto, ad 1/10 del proprio reddito- che gli allevatori e gli agricoltori dell’antica Roma dovevano all’erario. Nell’Antico Testamento Mosè già l’aveva imposta per sostenere leviti e sacerdoti (che  facevano parte dell’undicesima tribù, quella che non possedeva terre, e che si dedicava esclusivamente al culto di Jahvé). Per la Chiesa cristiana il Nuovo Testamento non prevede decime obbligatorie, bensì il libero appello alla radicale condivisione dei beni nella comunità (secondo Atti 4, 34-35). Tuttavia la chiesa medioevale impose di nuovo, dal V secolo, la decima e il Sacro Romano Impero ne fece un obbligo giuridico per tutto l’Occidente: diventò, di conseguenza, motivo di conflitto tra chi la rivendicava per il clero e chi, come Dante Alighieri, riteneva che “essa sia dei poveri di Dio”.

Senza dire dei conflitti, sulle decime, tra la chiesa e i nascenti stati nazionali. Dalla Rivoluzione Francese in poi le decime ecclesiastiche obbligatorie furono abolite in quasi tutti gli stati europei. In Italia fu abolita nel 1887 ma di fatto rimase nella pratica fino agli anni ‘50 del ‘900, soprattutto come dovere morale, un dovere morale vissuto come cogente da gran parte della popolazione finché durò la cosiddetta Cristianità: la chiesa si percepiva come societas christiana, una organizzazione parallela a quella statuale, con le relative strutture, una sua filosofia, un suo diritto, un suo sistema giudiziario e fiscale. È stato il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962) ad aprire le porte alla nuova ecclesiologia: dalla chiesa-organizzazione si è passati alla chiesa-comunità. E della decima è così rimasto, da una parte, lo spirito del dovere di solidarietà verso chi nella comunità svolge un servizio riconosciuto a favore degli altri: l’offerta libera, dettata dal cuore e dalle possibilità (cfr Atti, 11,29: “allora i discepoli si accordarono, ciascuno secondo quello che possedeva, di mandare un soccorso ai fratelli abitanti nella Giudea” durante una carestia). D’altra parte, a livello legislativo, della decima è rimasto, nei sistemi concordatari e dei culti religiosi ammessi, la possibilità di dedicare a una chiesa (tra quelle riconosciute dallo Stato) una quota delle proprie tasse (l’8 per mille, appunto, in Italia).

Pensavo che la decima fosse una contribuzione solo in natura ed esclusiva dunque dei contadini; invece anche mia suocera (104 anni) mi racconta che pure in città, fino al Concilio, passava una pia donna a ritirare per la parrocchia, mensilmente, “la quota”: l’incaricata, diligentemente, su un quadernino spuntava il nome di chi faceva la dazione, peraltro predefinita nell’entità. La sopravvivenza fino a tempi recenti di istituti antichi come la decima ci fa capire quanto siano state epocali le trasformazioni sociali avvenute nell’ultimo mezzo secolo o poco più: in una società pluralistica come l’attuale sarebbero impensabili regole come quella della decima, possibili solo in un contesto di valori condivisi e in una società monoculturale.                 

Enzo Monsù

20 novembre 2024

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