Abbiamo lasciato la terra dei Piceni nel momento in cui si intensifica la produzione di manufatti metallici e questo settore, oggi detto secondario, che si affianca all’agricoltura o settore primario, viene a connotare in modo significativo la cultura delle genti centroitaliane.
Nei testi che trattano questo periodo i manifattori sono generalmente indicati come “artigiani”, ma, se è vero che la metallotecnica è un’arte, in genere con artigiano non si intende un artista, anche se la parola inizia con arte, ma un lavoratore in proprio o un’azienda a conduzione familiare, che non poteva esistere se parliamo dell’Età classica. Sviluppando l’insieme dei requisiti delle varie filiere che concorrono alla realizzazione di manufatti metallici, soprattutto per la protostoria non dovremmo pensare alla figura dell’artigiano come lo intendiamo oggi, ma più correttamente alle prime attività collettive con molti operatori addetti, come è oggi nella società industriale. Immaginare cioè una vera e propria proto-industria che si sviluppa nelle città murate del Piceno e dell’Etruria.
Non ci sono ovviamente testi che definiscano gli opifici manifatturieri centroitaliani come il risultato di una società protoindustriale, ma sia i reperti museali sia la memoria popolare espressa dalla mitologia ci parlano in questo senso. Da un lato occorre pensare che le economie protostoriche, nonostante la presenza dei commerci, dal punto di vista della produzione di beni manufatti si devono considerare economie chiuse. Non esistendo l’unificazione dei semilavorati, che arriverà solo con l’età imperiale di Roma, ogni oggetto, attrezzo o dispositivo necessario alle lavorazioni doveva essere prodotto in situ, come doveva essere presente nello stesso luogo l’insieme di conoscenze e capacità per realizzare ogni cosa necessaria al ciclo produttivo. Questo significa che il prodotto finale doveva essere venduto in quantità sufficienti a garantire la sopravvivenza di ogni elemento della filiera; quantità certamente superiori alle necessità locali quindi da smaltire con la distribuzione su larga scala mediante i mercanti.
Il Pantheon dell’Italia centrale, che sarà condiviso come singole figure anche dalla grecità, ci parla chiaramente di questa evoluzione. Infatti già nell’Età del Ferro, come la chiamano gli archeostorici, abbiamo i protagonisti della nuova società ovvero della civiltà picena: il capo degli dei nostrani non è più Saturno il seminatore, ma è Giove e tale figura oggi sarebbe il presidente della Confindustria, mentre Mercurio presiederebbe la Confcommercio, Apollo l’ordine dei Medici, Minerva le donne imprenditrici, Marte sarebbe il comandante in capo dell’Esercito e Vulcano il presidente della Federmeccanica. La produzione metallotecnica, che tratterò in dettaglio, è proprio l’attività più connotata e redditizia dell’antico Piceno, attività che andremo a esaminare non dal punto di vista tecnico, ma leggendone le manifestazioni nella società centroitaliana della preistoria, dopo la lenta evoluzione che crea appunto il settore manifatturiero.
Il riferimento alla mitologia non è fuori luogo, soprattutto se lo si collega allo studio delle tipologie dei reperti di cultura materiale. Entrambe le discipline hanno completa convergenza dalla letteratura, al territorio, ai musei. Nel Piceno preromano come in Etruria si formano infatti gli insediamenti produttivi connotati da cinte di mura “megalitiche”. Qui da noi sono ben cinque, sono tutte città preromane se ci si riferisce alla tecnica costruttiva delle mura, che non sono certo nate per fungere da ricovero a dei pastori/agricoltori che vivono in arretratezza aspettando la leggenda di Romolo e Remo. Sono le città che ancora vantano lacerti di “mura ciclopiche” realizzate con dei grandi blocchi litici sommariamente squadrati, esse sono: Ascoli, Ancona, Fermo, Osimo e Septempeda.
Le Età successive hanno quasi completamente cancellato le testimonianze più lontane nel tempo, ma non tutte, in quanto intorno alle antiche mura di questi centri si sono trovate tracce di attività manifatturiere preistoriche. Le città e le mura cittadine non sono nate per proteggere le persone, ma le ricchezze costituite dalle scorte di materiali per produrre, soprattutto di quelle reperite molto lontano dal luogo di trasformazione. Il fenomeno “città” nasce per l’esigenza di immagazzinare le scorte alimentari dell’agricoltura intensiva, ma immediatamente dopo custodiscono le materie prime necessarie alla produzione di manufatti metallici. Tali minerali, prima semplicemente raccolti quando affioranti, poi estratti dalle cave e dalle miniere, provenivano anche da luoghi lontani.
Non esiste ancora un sistema monetario perciò è il baratto che definisce il valore economico delle merci. Al capo delle tribù seminomadi dell’Europa continentale fanno gola i lussuosi prodotti in metallo centroitaliani che ne sottolineano lo status all’interno della tribù, mentre non sa che farsene dei metalli nativi raccolti sulle rive dei fiumi e neppure dell’ambra, cose che i suoi pastori trovano durante gli spostamenti delle greggi e sono ricercate dai mercanti centroitaliani. Se per i produttori il problema esistenziale è ottenere la massa critica di produzione per consentire un sufficiente numero di occupati e mantenere viva la catena del saper produrre, per i mercanti che devono smaltire la produzione è essenziale disporre di un bacino sufficiente di utenti, andandoli a cercare dove sono apprezzati, ma non si sanno produrre, i beni che lui vende.
Il risultato di questa situazione è definibile con una espressione attuale il sistema degli scambi internazionali. Cercheremo le tracce lasciate sul territorio dell’Europa ancora senza confini, seguendo le testimonianze materiali dei circuiti delle carovane dei mercanti che scambiano manufatti con materie prime, visto che non c’è scrittura e il campanilismo nazionale non è ancora salito in cattedra a inventarsi un popolo e una cultura come quella de “i Celti”. Gli esami di laboratorio sui reperti di questi periodi ci hanno riservato molte sorprese, la più eclatante è la scoperta della provenienza dalla Toscana e non dai Carpazi del rame della cosiddetta “scure di Oetzi” il cacciatore di stambecchi Altoatesino di cinque millenni fa, ma a essa segue una moltitudine di oggetti prodotti aldiquà delle Alpi e rinvenuti un po’ dappertutto nell’Europa Continentale.
La mappa forse più rispettosa della penetrazione mercantile etrusco/picena ci è però fornita da una consuetudine diffusa che gli archeologi hanno chiamato “Cultura degli Incineratori” o “Cultura dei Campi di Urne”. Se guardiamo alle mappe dei campi di urne nell’Europa occidentale, possiamo leggervi la penetrazione commerciale della civiltà centroitaliana, in quanto la maggior parte dei manufatti che gli archeologi transalpini dell’ottocento vollero fosse produzione locale, sono finalmente stati riconosciuti per la maggior parte come nostrani. Questa situazione la descrissi nel saggio -Le radici mediterranee dell’Europa. ISBN 9788894295016-© 2019, scritto in collaborazione con Fabrizio Cortella dove si legge: “…… Sottolineo a questo riguardo che nell’eccezionale corredo funebre della Dama di Vix, insieme con il più grande vaso in bronzo conosciuto, è stato rinvenuto un bellissimo torque d’oro di quasi mezzo kilo. L’archeologia ufficiale parla di “doni diplomatici” portati in astratto, da non si sa chi, a quali alti personaggi. Io ci vedrei invece le ricchezze di cui si circondava una donna mercante d’origine e di cultura centro italica, stabilitasi a Chatillon sur Seine per convenienza commerciale. Questa “Dama” è in Francia l’omologa della signora di Sirolo, la cui sfarzosa tomba con i suoi reperti costituisce in pratica tutta la collezione dell’Antiquarium di Numana (AN). La Dama di Vix come questa di Sirolo ha voluto dotarsi di tutti i “confort” e i simboli del suo stato matriarcale e del suo paese d’origine. Il grande calderone bronzeo di Vix, un capolavoro di tecnologia, è esattamente uguale, anche nelle dimensioni, a quello dipinto in una tomba etrusca ed è espressione della grande tecnologia affinata in toscana a partire dal Calcolitico”.
La stessa situazione la possiamo apprezzare nel filmato apparso di recente sul canale YouTube https://www.youtube.com/watch?v=fHL55gO2vW8&t=2798s) e intitolato “Le regine perdute dell’età del ferro”, in cui archeologi di mezza Europa sugli stessi reperti affermano pressappoco le stesse cose che ho scritto dal 2016. Una situazione particolare ha vissuto un sesto grande centro protoindustriale piceno: Urbisaglia, nata col nome di Urbe dei Salii o Salui (Urbisaluiensis sul “Liber Coloniarum”), insediamento che, ritenuto abitato da coloni romani, solo recentemente ha rivelato testimonianze di attività definite come “Area artigianale a Urbs Salvia, la più rilevante delle Marche” (Il resto del Carlino 16/6/2024) e certamente ne rivelerà ancora se si vorrà scendere sotto il livello della città augustea. Sta scomparendo l’idea di Urbisaglia città di coloni, ma resta l’uso poco pertinente della parola “artigianale” per le città proto industriali picene.
Il campanilismo nazionale ottocentesco e il fatto che l’archeologia sistematica è stata sviluppata prima da Tedeschi e Francesi che non dagli Italiani (per Cavour era più importante far spiegare le comuni ragioni culturali del Rinascimento come motivo per conquistare lo Stivale che non far studiare i Liguri e gli Etruschi), hanno fatto sì che i bellissimi oggetti “celtici” rinvenuti oltralpe e la cultura che testimoniano siano stati etichettati come produzioni locali dei luoghi di rinvenimento anche se, scrissero gli archeologi locali, con evidenti influssi “etruschi” (dei Piceni preromani si è cominciato a parlare da poco). Purtroppo ciò che avrebbero voluto gli archeologi transalpini non è tecnicamente possibile: come ho appena accennato la metallotecnica antica non poteva essere un fatto “artigianale” per via delle attrezzature e delle materie prime necessarie, fra le quali le tonnellate di carbone di legna per i forni fusori dei metalli. È inimmaginabile che una tribù di pastori seminomadi porti con sé, nel continuo movimento da un pascolo al successivo, le scorte di minerali metalliferi, forni, attrezzi e soprattutto le grandi quantità di carbone necessarie. Egualmente è impensabile che in ogni nucleo tribale ci siano persone con tutte le competenze per produrre e lavorare metalli e anche gli immancabili apprendisti, e tutto questo per fare un corredo di pentolame da mensa extra lusso per il capotribù magari ogni dieci anni, quelle stesse cose che ritroveremo nel suo tumulo e solo in quello.
Pertanto la comparsa nell’Europa continentale di questi prodotti italici (e non celtici) poteva avvenire solo se intraprendenti mercanti formavano consistenti carovane di muli, con tanto di salmerie e di scorta armata, per portarsi nei luoghi dei templi dove si incontravano le tribù seminomadi dell’Europa occidentale continentale (luoghi testimoniati dai dolmen e menhir). Le carovane valicavano le Alpi per portarsi ad attendere i clan nei luoghi dove si radunavano ciclicamente per celebrare i loro dei (più di un centinaio di clan se si sommano quelli germanici elencati da Tacito con i Merovingi delle Gallie occidentali). Per le tribù che vivevano di pastorizia seminomade l’incontro periodico fra clan patriarcali era occasione di scambio con i mercanti italici e anche di combinare matrimoni fra membri di tribù diverse, per evitare troppe unioni fra consanguinei stretti.
Nei luoghi dove avvenivano tali raduni gli archeologi transalpini hanno trovato i cosiddetti “campi di urne” e li hanno attribuiti astrattamente a una nuova religione di una cultura trans europea, della quale non si sa nulla aldilà della pratica dell’incinerare i defunti. Se guardate una cartina europea dei luoghi di questa “cultura”, vedrete che si sviluppa in lungo e in largo toccando anche l’Italia centrale. Come al solito ho una differente spiegazione del fenomeno, impostata su presupposti differenti. Innanzitutto questa pratica dell’incinerazione è particolare e perdurerà per circa due, tre secoli. La sepoltura avveniva raccogliendo le ceneri del defunto deposte in urne cosiddette “biconiche” a collo largo, chiuse con una scodella e poste in una buca poco profonda nel terreno, dopo aver spezzato uno dei manici sia dell’urna sia della scodella. L’interramento non era effettuato in luoghi casuali, ma in siti specifici con centinaia di urne interrate, tracce di edifici isolati e qualche inumazione convenzionale.
Tali “Campi di Urne”, magari con urne di forma leggermente differente, si ritrovano, come già accennato, in una larga parte dell’Europa, una estensione troppo vasta per pensare a una forma religiosa comune, soprattutto quando non sappiamo nulla delle religioni transalpine di quelle Età. L’incinerazione è diffusa anche nell’Italia Centrale dove prende il nome di Cultura Villanoviana perché il primo sito in cui si sono trovate urne cinerarie è stato Villanova di Bologna. In Toscana si sono successivamente ritrovati altri campi che essendo più antichi sono detti Proto Villanoviani. Si è voluto vedere in questa pratica un aspetto specifico della civiltà etrusca, ma i ritrovamenti coprono aree troppo vaste per giustificarlo. Un caso nostrano ma non l’unico, è la cosiddetta “enclave etrusca di Fermo”, dove urne cinerarie si trovano frammiste a inumazioni terragne. In una di queste inumazioni del cimitero di contrada Mossa, fra il corredo dello scheletro completo spicca un’urna biconica come quelle appunto dei “campi di urne: era appartenuta al defunto, ma è senza ceneri.
Questo piccolo ma essenziale indizio mi ha permesso di dare una spiegazione più coerente al fenomeno dell’incinerazione manifestato dalla cultura dei campi di urne e villanoviana. La distribuzione di oggetti metallici, manufatti nell’Etruria e nel Piceno, era effettuata da carovane che compivano viaggi pluriennali oltralpe, spingendosi fin dove lo scambio di beni era profittevole. L’organizzazione dei carovanieri aveva perfezionato la logistica di tali viaggi per consentire appunto il profitto. Possiamo pensare a carovane di un centinaio e più di bestie da soma cariche delle merci da scambiare e anche di tutto ciò che rendeva sostenibile una lunga trasferta. Le scorte di cibo erano essenziali: carni seccate e soprattutto farine di cereali da impastare con l’acqua al momento del pasto. Con un’abitudine che ritroviamo anche nella romanità, il sapore monotono e sempre uguale di questo cibo era migliorato dall’uso di salse piccanti come il ben noto garum.
Ogni componente della carovana: mulattieri, guardie armate e mercanti, doveva portare con sé il proprio vaso della salsa, il tipico vaso “biconico” a collo largo e la scodella in cui preparare il pasto. È realistico supporre che, per varie cause, un componente la carovana decedesse durante il viaggio. Seppellirlo lontano da casa lo avrebbe privato dell’affetto dei congiunti e delle relative azioni propiziatorie delle divinità dell’Aldilà ma era impensabile trasportarne la salma; la soluzione più razionale era incenerirlo e conservarne un poco di ceneri nel suo vaso per le salse, chiuso dalla sua scodella, oggetti personali che non avrebbe più usato (perciò si spezzava un manico). La soluzione era palesemente ottimale: consentiva di proseguire la trasferta commerciale e al ritorno consegnare le ceneri del caro estinto ai familiari. La razionalità della soluzione ha favorito la diffusione di questa pratica anche fra i componenti dei clan seminomadi transalpini che la videro praticare dai mercanti italici e da qui, secondo la mia tesi, sono nati i “campi di urne” transalpini dove i nomadi interravano le urne di defunti e incinerati altrove. In Italia centrale questa pratica si è anche diffusa presso i residenti, perché più economica dell’inumazione singola su letto di ghiaia o delle grandi tombe di famiglia scavate sottoterra o edificate.
Si sono rinvenute infatti urne cinerarie in terracotta a forma di capanna o di casa e urne chiuse da un elmo crestato, sempre in terracotta, anziché dalla scodella, forse per sottolineare il ruolo guerriero del defunto. Nella fase più tarda di questa pratica si sono realizzate urne apposite con un solo manico. Queste considerazioni portano a contestare la definizione di “enclave Villanoviana” perciò etrusca a Fermo, situazione che non ha nulla di realistico perché sono inspiegati i motivi che avrebbero portato una comunità etrusca a isolarsi nel fermano. Se pensiamo invece che i Piceni non fossero dei sottosviluppati, ma attivi manifattori e mercanti “internazionali”, è tutto più chiaro. Pensiamo inoltre che per la sua posizione tattica, l’agglomerato di Fermo fosse un centro stabile di formazione delle guardie di scorta delle carovane, oltreché di produzione metallotecnica. Funzione che ha mantenuto anche con la romanità, perciò nei suoi cimiteri troviamo sia incinerati sia inumati, perché per logica non morivano tutti in trasferta, inoltre persistono in situ toponimi antichi come la “strada de lo ferro” o la “via dei legionari”. Anche questo aspetto cancella la subordinazione culturale che per lunghissimo tempo è stata attribuita alla civiltà dei Popuni nei riguardi di quella dei Rasenna. Siamo entrati nell’età in cui maturano le condizioni per fondare la Roma tiberina (alla prossima puntata).
Medardo Arduino
7 novembre 2024