Bayesian: non si va contro le leggi della natura, della fisica e della meteorologia

“Ma lo sai bene che la barca a vela cresce di un metro l’anno!” Noi velisti questa frase ce la siamo sentita ripetere almeno una volta mentre eravamo intenti a raccontare qualche aneddoto di navigazione, soprattutto quelli degli ingaggi con altre vele non in regata, ma durante la navigazione di crociera. Perché si, se ti trovi a fare una rotta parallela a un altro velista è implicito l’ingaggio. È in quei racconti che ti viene da spiegare che eri già alla velocità massima della tua che però era minore di quella della barca con cui ti stavi misurando e l’ha avuta vinta l’altra anche se non sfruttava il vento così bene come lo stavi facendo tu, ma era una barca un paio di metri più lunga, altrimenti..!

Forse è questo fatto squisitamente fisico degli scafi solcanti, ovvero che la massima velocità raggiungibile è funzione della lunghezza al galleggiamento, che ha fatto nascere il modo di cui sopra. Barca a vela piccola vuol dire bassa velocità, che tu sappia o meno sfruttare al limite la spinta della velatura, perciò il desiderio di andare più veloce ti fa desiderare una barca più lunga. Anch’io non ne sono stato immune: in cinquanta anni e più di vela sono passato da un Dinghy dodici piedi ad uno Sloop Marconi di trentaquattro. Perciò 34-12=22 piedi di crescita, quasi mezzo piede l’anno ovvero circa una dozzina di centimetri.

Questo non mi fa pensare che il metro del detto sia errato: semplicemente un metro è il valor medio statistico della crescita della lunghezza delle barche a vela che acquista un armatore, che spesso non è dipendente da un semplice desiderio di velocità da soddisfare, ma da altri fattori, prima di tutto quello della disponibilità economica e del volerla ostentare con la barca come status symbol. In pratica c’è chi all’estremo superiore dei valori che fanno quello medio statistico, fa crescere la sua di svariati metri l’anno, perché se lo può permettere ed esibire. Il grande costruttore di velieri Sangermani soleva dire “se ti chiedi quanto ti può venire a costare significa che non te lo puoi permettere”.

La vela non è stata, nei millenni, un mero fatto sportivo o d’immagine, ma al contrario ha fornito la spinta necessaria alla propulsione dei natanti in modo pressoché gratuito, bastava solo rizzare un albero e metterci su della tela. La storia della navigazione a vela ci racconta dei grandi viaggi e delle grandi scoperte fatte dagli equipaggi dei velieri, primo fra tutti Cristoforo Colombo. Lui non dimostrò che la terra era rotonda, lo si sapeva già da più di un millennio, dimostrò invece alle nazioni mediterranee che l’oceano aperto era navigabile. Orbene il mare è una massa liquida e navigarci impone l’assoluto rispetto delle leggi della fisica, da quella codificata da Archimede a quelle della meteorologia, a quelle delle caratteristiche tensili dei materiali. La imbarcazione a vela è un manufatto di tecnologia umana, il cui comportamento è gestito e manovrato da esseri umani e deve assolutamente vivere in rispettoso equilibrio con queste leggi.

La padronanza delle discipline  scientifiche ha sviluppato da un lato i prodotti specifici della nostra civiltà in questo campo, nati per esigenze diciamo “commerciali” ovvero la possibilità di trasportare profittevolmente anche per mare grandi lotti di merci e produrre un ritorno economico, dall’altro la competizione nell’avere imbarcazioni da diporto sempre più performanti perciò sempre più grandi, magari solo per dimostrare il potere finanziario dell’armatore.  Una volta c’era la Coppa America, nata dal piacere di alcuni armatori di dimostrare la qualità delle proprie imbarcazioni, trasformatasi oggi in una esasperazione tecnologica che fa volare le barche con lo scafo interamente fuori dall’acqua e non darà quasi più nulla agli amatori della vela, come un veicolo di Formula Uno non dà quasi più nulla alla nostra prossima automobile.

Oggi la vela non è più il mezzo ideale di propulsione delle navi da carico, ma è rimasta nel diporto nautico. Nei secoli passati i costruttori, con tentativi e sbagli, hanno sviluppato allestimenti fatti per offrire sufficienti condizioni di sicurezza e manovrabilità ai velieri oceanici, come i cosiddetti Galeoni, sostanzialmente realizzati in legno e dotati di una superficie velica sufficiente a generare velocità ragionevoli in funzione delle distanze navigabili e della gestibilità delle manovre. Il compromesso fra la stabilità in acqua e la captazione dell’energia cinetica dei venti ha fatto nascere e perfezionare categorie di imbarcazioni a vela, classificate soprattutto in funzione dell’“armamento” ovvero del numero e della dimensione degli alberi e della velatura.

La Cocca medievale aveva un albero ed una sola vela quadra e si è evoluta nel Galeone barocco con tre alberi e un bompresso e con molte vele infierite su pennoni. La cantieristica si è evoluta su quest’ultimo tipo di armamento fino ai grandi Clipper ottocenteschi come il Cutty Sark, poi soppiantati dai “Vapori” come erano chiamate le navi della prima propulsione a elica che al pari delle locomotive sfruttavano l’invenzione di Trevithick e Stephenson. Dall’Età dei Vapori a oggi la vela non è più una necessità per la propulsione delle navi: è rimasta sostanzialmente viva per il piacere dei diportisti. Al pari della cantieristica navale mercantile anche quella da diporto ha beneficiato delle innovazioni tecnologiche dal legno al metallo e alle plastiche rinforzate con fibra di vetro o carbonio. L’esperienza di lunghissimi secoli aveva generalizzato l’armamento delle imbarcazioni a vela da diporto in “tipologie” legate soprattutto alla lunghezza dello scafo, e in funzione di questa al numero e alla disposizione degli alberi.

Oggi l’ulteriore sviluppo delle tecnologie di cantiere ha permesso, a mio sommesso avviso, di scavalcare l’esperienza passata che legava il numero di alberi alla lunghezza e quindi al dislocamento. Mi riferisco alla classificazione più nota che vedeva nello Sloop uno scafo fino ai 18 metri circa al galleggiamento, armato con un solo albero di altezza di poco superiore alla lunghezza fuori tutto dello scafo. Il tipo successivo, fino a grossomodo una trentina di metri, era lo Schooner o Goletta con due alberi di cui il primo un po’ meno alto. Con tale armamento il centro di spinta della velatura risulta più basso, in proporzione, a quello dello Sloop. Semplificando la questione: sullo Sloop la vista laterale dello sviluppo della velatura è pressappoco un triangolo col vertice in testa d’albero e la base lunga quanto lo scafo, sulla Goletta invece è all’incirca un trapezio, con base minore la linea che collega le due teste d’albero e la base maggiore la lunghezza in coperta. Perciò, rispetto al baricentro dello scafo, la distanza del centro di spinta (baricentro geometrico del trapezio) nella Goletta è proporzionalmente minore di quella dello Sloop proprio per la diversa disposizione delle vele. Trascuro gli ibridi detti Yawl, sostanzialmente uno Sloop con un alberetto all’estrema poppa o il Ketch che per far dispetto alla Goletta ha l’albero anteriore più alto del posteriore.

La terza tipologia è la Nave, così definita un tempo perché di lunghezza superiore a trenta metri e sempre armata con tre alberi (navi con quattro alberi sono state rarissime in passato, oggi sono solo bizzarre navi da crociera). Fare una nave a vela lunga oltre trenta metri e armarla con tre alberi è stato il frutto di una lunghissima esperienza pratica, sviluppata in tutto il globo, infatti il Sampan asiatico significa “tre vele”. Oggi la tecnologia dei metalli consente di realizzare elementi strutturali molto più performanti di quella del legno, e non ci sono perciò più limiti dimensionali nel realizzare imbarcazioni a vela da diporto su qualunque schema di armamento. Cominciò, credo, l’Avv. Agnelli, grande appassionato, a farsi fare nel 1987 uno Sloop di trentacinque metri di lunghezza, battezzato Extra Beat, ormeggiato ad Antibes. Il problema difficile fu l’albero, mi ricordo infatti che restò allungato a terra sul molo per moltissimo tempo; Extra Beat recentemente ha disalberato.

Il gigantismo degli Sloop iniziò in Nuova Zelanda a fine anni ’80 ed è giunto alla notorietà oggi con il naufragio del Bayesian, lo Sloop di oltre cinquanta metri con l’albero più alto del mondo. Il gigantismo strutturale di questi superyachts oggi non è certo un problema tecnologico, perciò non limita il capriccio di un armatore che, aldilà del consueto (ovvero della cosiddetta “esperienza”) vuole stupire con un unicum. Restano però invariati i vincoli inalienabili legati alla fisica tecnica quali la notevole inerzia di una imbarcazione di tal tonnellaggio che confligge con l’aumentata potenza dei fenomeni metereologici dovuta al “global warming”. Cosa non è cambiata è l’invariante dell’imprevedibilità delle scelte umane, innanzitutto nel volere dimensioni assurdamente oltre il consueto per uno Sloop, poi della reazione a improvvisi eventi esterni, imprevedibilità che non si può anticipare a progetto neppure in uno dei migliori cantieri navali del mondo.

M. Difficilino

3 novembre 2024

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