“Voce di sorgente” nel libro di Paolo Paolini la storia vera di una famiglia marchigiana

Prima di recensire un libro diamo uno sguardo alla quarta di copertina, per capire di che si tratta e il presupposto ci aveva preoccupato perché ci è sembrato di avere sottomano un libro “palloso”, trattando di alberi genealogici, ossia una serie di documentazioni frutto di una ricerca meticolosa, per stabilire chi è figlio di chi… Ci siamo quindi predisposti alla lettura un po’ prevenuti.

Invece, fin dalle prime pagine, Paolo Paolini, l’autore di “Voce di sorgente – Storia vera di una famiglia marchigiana”, edito da Edizioni Simple di Macerata, ci ha sorpreso e ci ha catturato tanto da leggere le pagine senza l’interesse per vedere come sarebbe andata a finire la storia ma gustando con piacere lo svolgersi della narrazione, legata così bene al dipanarsi delle vicende sia umane che storiche, vissute nei dintorni di Ancona.

Naturalmente i documenti genealogici ci sono, opportunamente sistemati alla fine del volume, per non appesantire il racconto, ma pronti lì, fotografati come testimonianza e per soddisfare la eventuale curiosità di qualche lettore. La ricerca ha inizio nella metà del ‘500 con un nome: Giò Batta del Parente di Paolo; e prosegue scartabellando gli archivi parrocchiali dei paesini intorno Ancona, i nomi si legano, le parentele, le variazioni dei domicili… in pratica è la storia di una famiglia di contadini che, nelle vicissitudini, è un po’ la immagine speculare delle famiglie contadine marchigiane, delle loro tribolazioni, delle vessazioni subite ma anche della tenacia di queste persone, della capacità di gestire la natura, di amarla e di saperla far fruttare.

Tutto questo mentre si sopportano le traversie della vita, anche le più dolorose come la perdita dei figli in tenera età, dovuta a malnutrizione, alle malattie per le quali non esistevano cure adeguate ma solo medicamenti con le erbe, a volte efficaci ma più spesso inutili. E lavoro, tanto lavoro nei campi fino a sfinirsi. Intanto ciclicamente si susseguono pestilenze che decimano la popolazione, passano le guerre con il loro carico di devastazioni e di morte.

La vita in città e quella nelle campagne, una socialità completamente diversa, una istruzione quasi inesistente per i contadini, il cui sapere è acquisito dal “vergaro” per i maschi e dalla “vergara” per le femmine ed è rivolto unicamente a saper gestire bene la campagna, sia con gli scarsi mezzi meccanici (tutto a forza di braccia e di un paio di vacche) e anche con una sapiente osservazione della natura e dei suoi fenomeni. Cultura basilare per la sopravvivenza e per regalarsi una vita migliore, dal punto di vista nutrizionale e da quello abitativo.

Ne esce la immagine di famiglie unite negli intenti e nell’affetto, di vicinati che si aiutano vicendevolmente (lu rajùdu maceratese). Sono situazioni oggi quasi scomparse, soppiantate da un individualismo dominante. Durante la lettura di queste pagine ben scritte sorgono riflessioni spontanee sulle complementarietà innestate nel racconto. Toccante la ricerca dell’autore dei protagonisti in un camposanto dove, tra le lapidi, riesce a rintracciarne due piccole, con nomi e data di morte, senza foto, con vasetti vuoti… da tanti anni dimenticate.

Fernando Pallocchini      

7 ottobre 2024  

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