Il grano e le sue ritualità: mietitura, battitura, trebbiatura e la paura per la grandine

L’espressione battaglia del grano ricorda una campagna fascista di propaganda, ma potrebbe anche sintetizzare i 10 mesi di lavoro necessari ai contadini per produrre il grano, che è rimasta la prima coltura marchigiana per secoli: dalla preparazione estiva del terreno con la distribuzione del letame della stalla, all’aratura con l’aratro (la pertigara, o pertecara in origine di legno) tirato da 2-3 coppie di mucche, dall’erpicatura per rompere le zolle (zuppi o jéppe) e livellare il terreno alla semina autunnale, alla monnatura primaverile fatta a mano per estirpare le erbacce infestanti. Il tutto accompagnato dallo stupore di vedere il campo farsi pian piano verde, da marrone che era, per poi tingersi di giallo e d’oro; tutto accompagnato pure dall’ansia quotidiana per il timore che tanto lavoro venisse compromesso dall’agguato di vento, temporali e grandine.

Si può capire allora perché anche noi bambini avevamo imparato il rito di giugno per saggiare la maturazione del grano e prevedere l’abbondanza del raccolto: sfregavamo una spiga sul palmo della mano, ne soffiavamo via la pula, contavamo i chicchi e ne mettevamo qualcuno sotto ai denti. Accertata la maturazione, il vergaro organizzava lo scambio d’opere coi vicini o i compari (i consuoceri) e decideva l’inizio della mietitura cominciando dal campo da sòle, quello rivolto a mezzogiorno, per evitare di raccogliere prodotto umido (che non si sarebbe conservato in magazzino) oppure troppo secco (che sarebbe caduto, si sarebbe perso, durante la lavorazione). Battute le falci, eccoli in azione i falciatori, maschi e giovani, a torso nudo, con alla cintola le coti penzolanti per affilare le falci.

Dietro di loro le donne, a raccogliere i mannelli di spighe per depositarli sopra ai varzi pure fatti di grano a mo’ di legacci: loro sono munite di falcetti per raccogliere i fasci  e anche per sostituire le falci nei posti più scomodi o vicino agli alberi proteggendosi allora con i cannelli paradita di ferro. Passava poi il legatore dei covoni che – scesa la sera e, con essa, un po’ di umidità – sarebbero stati ammucchiati per formare i cavalletti a forma di croce, badando che nessuno della dozzina di covoni assemblati avesse le spighe a contatto con la terra. Solo a questo punto potevano passare le rcoierelle o spigolatrici, ragazze del vicinato, orfane, povere, senza lavoro oppure gli stessi bambini di casa. Tutti comunque a pestare le stoppie coi piedi nudi e incalliti. Col campo mietuto che viene cambiando di aspetto, anche le covate di quaglie perdono il nascondiglio per la prole ancora non pronta a volare: anche altri animali (compresi i gatti e i cani di casa più sprovveduti) ci lasceranno le penne, soprattutto quando le falci saranno sostituite – nel tempo – da mietitrici a trazione animale o da mietilega e mietitrebbie a motore.

Abbiamo fatto presto a raccontare una giornata di mietitura, ma viverla sul campo era più dura e più lunga; allora a spezzarla servivano le pause mangerecce: considerando che si partiva da casa al fresco del mattino solo con una fetta di ciambellone e un bicchiere di vino o di caffè d’orzo, alle 7 era già ora di far colazione e poi, verso le 10, arrivavano le ragazze di casa per la zuppa con nei canestri qualche fetta di salume, tanto pane condito e una brocca d’acqua e vino; di nuovo a lavoro aspettando la campana di mezzogiorno per il pranzo abbondante. Una mezz’ora di riposo, un’altra fetta di ciambella e di nuovo in battaglia fino alle ore 16 circa, quando all’ombra ci si sdraiava  per una rapida merenda (u voccò). Infine senza interruzione fino a cena, fatta salva la manna delle ragazze che portavano ogni tanto acqua e vino oppure acqua e limone rinfrescati nel pozzo.

Giornate e stagioni, quelle della mietitura, di fatica senza fine! Eppure erano anche una festa per tutta la comunità di vicinato: i più giovani, la sera, trovavano ancora la forza per un giro di saltarello sull’aia, accompagnati dall’organetto, oppure per dare una mano – ogni tanto – nel campo di una vedova o di anziani senza le braccia di figli giovani. Finita la mietitura, entrava in azione il biroccio per radunare tutti i covoni vicino a casa: fino ai primi decenni del Novecento, a sgranare le spighe ci pensavano i muli sull’aia o gli uomini che le “battevano” con lunghi bastoni snodati; poi i grandi setacci appesi al soffitto separavano il grano e la pula. Fu una rivoluzione l’invenzione della trebbiatrice: prima quella a vapore (rimasta in funzione al massimo fino agli anni di guerra, quando tornò irreperibile il gasolio) poi quella fatta girare dal cintone collegato al motore a scoppio del Landini “a testa calda” (cosiddetto perché andava prima scaldato), rimasto in vigore fino all’introduzione – negli anni 70 – della mietitrebbia semovente.

L’arrivo della trebbia in casa era anche per noi bimbi un evento: mentre veniva “impostata” (cioè spianata con martinetti e “fiecche” per alzarla o facendo buche per abbassarla) e collegata alle scale della paglia e della pula, le donne di casa sacrificavano oche e galline per sfamare alla fine  le decine e decine di lavoratori (tutti i vicini accorsi in regime di scambio d’opere, più i cosiddetti pajaroli, addetti permanenti alla trebbia). L’urlo della sirena (avvicinata al cintone) segnalava l’inizio del lavoro; e allora via di corsa ognuno al suo posto secondo le indicazioni del vergaro: gli anziani a pestare i pagliai, le donne giovani a slegare i covoni che poi l’imboccatore infilava nel battitore dalla parte delle spighe e i giovanotti alle bocchette del grano per caricarsi i sacchi da un quintale tra capo e collo e portarli alla bascula dove venivano registrati con una tacca su un bastone per ogni passaggio. Alla fine fattore, padrone e vergaro facevano i conti, accantonando le spettanze pattuite nel contratto mezzadrile e anche le quote per la decima al parroco e per i pagamenti in natura, compreso il noleggio della trebbia. Merita una trattazione a sé la mangiata comunitaria finale, coi maccheroni al sugo d’oca e di papera.

Enzo Monsù

30 settembre 2024

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