Nella precedente puntata ho tratteggiato in estrema sintesi le ragioni che reputo fondamentali per l’origine della civiltà della regione Picena, che nessun archeologo del passato ha voluto investigare, accettando per storia la leggenda del picchio e dei Sabini colonizzatori, tant’è che nel logo della regione campeggia un picchio stilizzato (https://www.larucola.org/2024/09/09/lantichissima-storia-del-popolo-marchigiano-piceni-altro-che-barbari-pecorai/).
Proseguo la sintesi della mia visione della storia, ora esposta ne “Il Piceno, storia e cultura” entrando nel periodo più qualificante, tanto importante quanto misconosciuto, ovvero la civiltà dei Piceni durante le cosiddette Età dei Metalli, il periodo di intensa sperimentazione e crescita che è stato il trampolino di lancio e il presupposto tecnologico ed economico della formazione della civiltà egemone dell’Evo Antico: la civiltà di Roma. Anche in questo caso la mitologia ci assiste perché le nuove formazioni sociali sono impersonate dai loro “nuovi” dei: Giove (il finanziere) detronizza Saturno e compaiono i suoi colleghi minori Mercurio, Minerva e Giano (il commerciante, l’imprenditrice e il bancario); Pico cambia mestiere e fa la guardia giurata. Semplicistico ma realistico.
L’archeologia ha localizzato sui Carpazi l’origine dell’Età del Rame, partendo da congetture e trascrizioni di testi classici soprattutto greci. Con gli stessi metodi le culture preistoriche dell’Italia Centrale identificate col nome di Cultura di Remedello sono state viste come emanazione di tale cultura che dalla regione danubiana si è voluto vedere irraggiarsi per tutta Europa e generare la Civiltà Celtica. Poi l’attrezzo di Oetzi il cacciatore preistorico del Similaun, impropriamente detto ascia, ha localizzato a Campiglia Marittima in Toscana la provenienza del tagliente in rame e il C14 sul manico lo ha datato 3500 anni a.C., mille anni prima del rame dei Carpazi: tutto da rivedere!
La mia visione della preistoria, ovviamente differente da quella classica, la proposi, dopo cinque anni di ricerche, nel Maggio 2016 nel saggio “Le Marche. Le terre dei Piceni e dei Salii, un patrimonio da rivalutare”. La necessaria rivalutazione che sottoponevo all’attenzione dei lettori era quella della reale consistenza della civiltà picena preromana, che ritenevo appunto sottovalutata dal conservatorismo accademico. Le evidenze dei reperti museali marchigiani, ricchi di oggetti esclusivi in metallo soprattutto quelli in acciaio, affiancati ai lussuosi oggetti in avorio, ambra e altri materiali esotici, ritrovati in gran quantità dappertutto dove si scavasse oltre il metro di profondità, testimoniavano una ricchezza materiale in totale contrasto con una civiltà definita dai professionisti “di pastori arretrati”, perché così erano valutati i Piceni.
La presenza di oggetti simili a quelli piceni, ritrovati dappertutto in Europa, soprattutto lungo le vie carovaniere che univano l’Italia Centrale ai bacini minerari nordeuropei, mi spinse a proporre una revisione di quell’archeostoriografia di matrice franco/tedesca che col gran campanilismo dell’Ottocento romantico voleva questa cultura materiale originaria di casa loro, ipotizzando una espansione culturale “celtica” per tutta Europa e una discesa civilizzatrice in Italia nel V secolo equivocando su un passo di Plinio e le Alpi. A mio avviso, lo sviluppo precoce della metallotecnica etrusco-picena fin dall’Età del Rame, resa possibile dal fenomeno della urbanizzazione, è cresciuta proprio in ragione della possibilità di concentrare certe produzioni nelle aree urbane, sfruttando anche il fenomeno della conservazione del sapere mediante apprendistato e specializzazione in tutti i rami delle cosiddette “filiere” indispensabili alla produzione metallotecnica, dai materiali per gli impianti e gli attrezzi, alle materie prime e ai combustibili.
Tale sviluppo necessitava però di un grande volume o “massa critica” di produzione, che non poteva limitarsi a qualche esemplare, di pentola o di spada, fatto da “artigiani” per il riccone locale. La produzione metallotecnica impone alti volumi di produzione anche in questa Età che definirei Età Proto Industriale, anziché intitolarla ai metalli. Le quantità prodotte dovevano per forza essere smaltite su ampi raggi di distribuzione, verso quei potenziali acquirenti, incapaci di produrre tali manufatti, rappresentati dai capi tribù delle genti erranti seminomadi dell’Europa Centrale, quei popoli che i Romani chiameranno Galli, Germani, Ungari e poi barbari. Per tale distribuzione era necessario armare carovane di muli che restavano qualche anno in viaggio, con luoghi fissi di ritrovo con i seminomadi: luoghi antesignani dei “Centri Commerciali” (Nota della redazione: come testimoniato dai ritrovamenti archeologici a Colfiorito di carri da trasporto piceni a tre ruote).
Nell’Italia Centrale, Etrusca e Picena, nascono le compagnie di mercanti specializzati, organizzati logisticamente con mulattieri, manovali assistenti, cuochi e soprattutto efficienti guerrieri di scorta alle carovane. Lo scambio di manufatti contro materie prime pregiate (ieri come oggi) è la base economica dei paesi più ricchi. Gli Etruschi e i Piceni sono stati i più importanti in questo settore, come si evince dalle grandi ricchezze di oggetti nei nostri musei, comparati con quelli in giro per l’Europa. Essi potevano pertanto permettersi di importare e pagare beni preziosi come oro e avorio da Africa e Oriente, pietre dure, ambra e metalli rari dall’Europa continentale, tutti oggetti che si ritrovano nelle inumazioni picene.
Nel 2021, una piccola società produttrice di filmati mi chiese di fare una serie di clips sugli “sconosciuti” Piceni per i canali social e, in un’intervista improvvisata di pochi minuti per annunciare la serie, dissi che, per spiegarci le culture picena e celtica, dovevamo pensare agli evidenti movimenti commerciali da qui al Nord Europa, non il contrario, della produzione nostrana di armi e oggetti in metallo per l’esportazione. I contenuti del filmato vennero giudicati dalla Soprintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio delle Marche come “informazioni errate nonché nozioni sorpassate, distorte, o peggio, falsate” negando l’autorizzazione alle riprese dei reperti museali perché “un utilizzo inopportuno del patrimonio culturale pubblico si configurerebbe lesivo del decoro dei beni archeologici…”. Per questo le mie pubblicazioni sono totalmente prive di fotografie.
È comparsa recentemente sui social una coproduzione Franco Tedesca dal titolo “Le regine dimenticate dell’età del ferro” di circa un’ora di durata. Nell’interessante documentario un gruppo di archeologi Tedeschi, Francesi e Italiani, illustra gli scavi e i contenuti di tre tombe eccezionali per ricchezza di reperti: quella di Numana detta “della regina”, quella di Vix in Francia detta “della dama di Vix” e quella bavarese di BettelbühlHeuneburg. Esprimo la mia ammirazione per le impressionanti tecniche di recupero e l’altissima qualità dei restauri dei reperti mostrati nel filmato che nel commento spiega come le enormi ricchezze dei corredi appartenuti a tre figure femminili dell’Europa “celtica”, abbiano una stessa matrice tipologica e la distribuzione paneuropea sia attribuibile al commercio “internazionale” (con un accenno ad una “comunità europea” preistorica), commercio che muoverebbe dall’antico Piceno, di cui Numana era il porto mercantile.
Gli archeologi intervistati parlano delle problematiche di recupero e restauro e annunciano futuri studi per spiegare gli aspetti socioculturali di questa civiltà paneuropea, avanzando molti interrogativi e nessuna risposta. Le uniche peculiarità evidenziate e ribadite sono la grande ricchezza materiale che accomuna le tre inumazioni e il fenomeno del commercio che questi reperti ha portato in giro per l’Europa. Il campanilismo francese vuole vedere cultura locale “celtica” e, pur accettando la successiva romanità del territorio, non vuole pensare che sia stata facilitata dalla penetrazione commerciale etrusco/picena già dall’Età del Bronzo. Non una parola sul perché una donna picena del sesto secolo fosse così ricca, e men che meno per le due transalpine. Eppure la civiltà picena è nota da almeno due secoli e i musei sono molti e ricchissimi di reperti.
Il problema forse è scavalcare la veterocultura che volle il picchio svolazzante sul vessillo dei pastori Sabini. La questione forse è dovuta anche al notevole livello di astrazione degli autori quando trattano aspetti di vita sociale quali la produzione manifatturiera (non ho letto alcuna notizia di esami metallografici sui manufatti in acciaio nostrani) o l’applicazione analitica delle leggi dell’economia degli scambi, anche se la nostra regione dimostra di essere un nodo fondamentale dei movimenti di import di materie prime ed export di manufatti pregiati. Noto con piacere che si inizia ad abbandonare “l’ellenocentrismo bigotto” (definizione di Auro Pampaloni per l’ex oriente lux, la colonizzazione culturale greca del Centro Italia) e che gli stessi fenomeni del commercio che nel mio dire erano errati in qualsiasi direzione, hanno ora grande dignità se detti da archeologi.
Se uno dei compiti avocati dagli archeologi come esclusivo è quello di farci conoscere la cultura delle genti delle nostre origini, forse può essere loro utile prestare attenzione anche a interpretazioni delle società in chiave “classicistica” che si rivela inconsistente e astratta quando si parla di “ricchezze”, ma si ignora da quali attività concrete provenissero. Oggi, dopo un secolo di studi sui Piceni si dovrebbe poter avanzare qualche ipotesi sul perché fossero tali e non solo attribuire le ricchezze a improbabili “aristocrazie” di cui non si sa come mettessero d’accordo il pranzo con la cena. È forse il caso di abbandonare dogmi classici senza consistenza come la fondazione di Ancona da parte dei Dori, che ha costretto gli archeologi della Tomba della Regina di Sirolo a inventarsi che Numana fosse un porto, quando basta un’occhiata alla spiaggia, immaginandola senza la diga attuale del marina di Numana per capire, se hai un minimo di familiarità con la nautica, che non era possibile che tale spiaggia, come illustrata nel disegno del filmato, fosse un porto e potesse consentire l’ormeggio e le lunghe soste per il carico e lo scarico di una pesante nave oneraria come quelle disegnate che navigano a vela spiegata nel mare antistante, incuranti della presenza di bassi fondali.
Qualsiasi geologo esaminando la cartografia potrà affermare che la conformazione del “gomito” di Ancona è naturale da quando esiste l’uomo ed era il ridosso migliore dell’intero Adriatico; certamente i Piceni lo utilizzavano e i Greci che ci venivano a commerciare lo conoscevano. Nel filmato, dopo aver sottolineato le ricchezze di queste donne, non emerge alcuna ipotesi un tantino concreta sul perché fossero ricche e quelle transalpine disponessero degli stessi oggetti centroitaliani. Nelle mie ipotesi sulla cultura picena dell’Età del Ferro, vedo la presenza di personaggi nostrani nei punti strategici delle vie commerciali, come, per la Via dello Stagno, il sito sullo spartiacque francese dove era il collegamento terrestre fra Rodano e Senna per il trasporto del minerale di stagno e delle altre merci da e per il Galles. Un sito su tale percorso, (di cui Vix era il cimitero) è il luogo ideale per un insediamento per il controllo dei traffici. Resta da stabilire se la signora Etrusca che si è stabilita lì era la titolare dell’impresa commerciale o una congiunta, cosa che non sapremo mai, ma che non conta nulla se non conosciamo l’organizzazione sociale del tempo, comunque, a mio avviso, essa non era una “celta” che in quanto tale non avrebbe apprezzato oggetti grecizzanti perché non c’erano ancora i licei classici. Le stesse considerazioni, con qualche elemento di confidenza in più valgono per la principessa germanica. Il villaggio fortificato di Heuneburg che si vede riprodotto nel filmato era anch’esso il “centro commerciale” per le carovaniere dirette sulla “Via dell’Ambra”, è stato ritrovato praticamente integro perché con la colonizzazione romana ha perduto il suo ruolo ed è stato abbandonato, perciò non essendoci più stata continuità abitativa la vegetazione se ne è appropriata conservandone i basamenti per noi (la consistenza degli alzati come rappresentati è solo congetturale). I Germani erano con una certa evidenza solo pastori seminomadi che non necessitavano di insediamenti stabili a eccezione dei luoghi funebri.
Devo rammentare a chi ha scritto i testi del filmato, per non creare ambiguità di significati, che è inopportuno ipotizzare legami parentali o matrimoniali fra scheletri ipotizzando la provenienza della “regina” da Belmonte Piceno, o meglio dal cimitero preistorico scoperto nel suo territorio, perché un cimitero non è un insediamento urbano, quindi da un cimitero non può muoversi una ricca fanciulla che va in moglie in un sito sulla costa e sarà inumata nel cimitero di Sirolo. Belmonte è un villaggio nato nel Medioevo, le tracce delle poche casupole dell’Età del Ferro erano, con una certa sicurezza, le abitazioni degli addetti a questo cimitero dei ricchi che vivevano nella città picena della valle accanto. Configurare una ricca società di “consumatori” delle ricchezze rinvenute nelle tombe, impone di individuarne il comodo e ampio sito residenziale preromano che non può essere un villaggio medievale. Ho fatto un pensierino sulla città di Faleria, giusto nella valle accanto, che certamente prima di essere romana era picena. Non penso di andare a farci prospezioni georadar, la semplice logica economica mi dà conferma. Non vedo affatto Belmonte come un centro di smistamento dell’ambra come si sostiene, perché in tal caso l’ambra la vedrei nei magazzini e non nelle tombe. Sulla necessaria localizzazione dei cimiteri importanti in luoghi lontani dai centri abitati, quando non si usavano le bare, ma si inumava mettendo il caro estinto su un letto di ghiaia, questo dovrebbe fornire le spiegazioni “scientifiche” per mettere le città dei morti abbastanza lontane da quelle dei vivi per non inquinare le falde acquifere. Amen.
Medardo Arduino
25 settembre 2024