Il Generale Marcello Pedretti, per alcuni anni Comandante della Scuola Specialisti dell’Aeronautica Militare di Macerata, eroe della Resistenza ai nazisti dopo l’Armistizio, uomo dalla vita avventurosa e dalla sterminata cultura, oltre al magnifico volume sulla Storia Aeronautica della Provincia di Macerata, ha lasciato alcuni scritti che illustrano la sua poliedrica attività e che meritano di essere noti. La Rucola ha il privilegio di poterli pubblicare.
La Titti
Nel quadro di storie di animali “volanti” vi presento due esemplari canini, molto diversi fra loro sotto il profilo fisico, mentre essi hanno come denominatore comune valori di umiltà, di fedeltà, di incondizionata obbedienza, di incorruttibile affezione, che questi animali riuniscono in sé e che spesso, secondo il mio personale modestissimo e umilissimo parere, li pongono al di sopra di molti, moltissimi individui del cosiddetto “genere umano”: sulla totalità del quale essi hanno un immenso vantaggio e privilegio, cioè di non essere cattivi, caratteristica questa dipendente da bassi quozienti di intelligenza, peculiare purtroppo di gran parte dei “bipedi implumi”. Vi presento due magnifici animali che hanno diviso, uno in particolare, con un giovane Ufficiale dell’Aeronautica Militare, periodi piuttosto convulsi della seconda guerra mondiale in Africa settentrionale. Il racconto che segue fu fatto allo scrivente da un suo compagno di corso, che qui indichiamo come M. E. Paolo, arrivato con lui in Africa Settentrionale, e viene quindi riferito in prima persona.
Aeroporto di Castelbenito – La “Titti” era una femmina di pastore tedesco, di un anno e mezzo circa, arrivata in aereo in Africa Settentrionale, sull’Aeroporto di Castelbenito, circa trenta chilometri a sud di Tripoli, posto in una zona lussureggiante di vegetazione tropicale e subtropicale; era una importantissima base aerea molto bene organizzata, con grande quantità di edifici in muratura, palazzine Comando, circoli, mense, alloggi, una piscina (purtroppo all’epoca senza acqua), campi da tennis, per una brillante vita “coloniale” del tempo di pace. Italo Balbo, nominato Governatore (ed “esiliato”) in Libia, non ebbe tempo di fare di più e di meglio, e aveva già fatto moltissimo, dalla Via Balbia lunga 1653 chilometri, che andava dalla Tunisia all’Egitto, attraverso la Tripolitania, la Sirtica, la Cirenaica, la Marmarica, agli alberghi, ai villaggi agricoli coltivatissimi e fertilissimi, ai villaggi per gli arabi, ai quali Egli era riuscito a far stimare – con riconoscenza – gli italiani. Ma la politica “bellicosa” del “Capo” in Africa Orientale e in Spagna limitò a Balbo le risorse che gli sarebbero state necessarie ulteriormente. Poi, in guerra, a Castelbenito tutto diventò ancora più complicato e difficile, anche per la massa di reparti di volo e di personale che gravitava e gravava sulla base, anche come centro di arrivi e partenze da e per l’Italia, e che rappresentava la mèta principale dei bombardamenti sia aerei che navali degli Inglesi.
Il Corpo Aereo Tedesco – Ero appena tornato a Castelbenito, da dove ero partito tre mesi prima per raggiungere il campo di Amseat, il più avanzato della Libia, in Marmarica, in prossimità del confine egiziano (1200 km circa in linea d’aria da Tripoli, 1600 km. circa lungo la Via Balbia). L’avanzata inglese, iniziata a Sidi El Barrani il 9 Dicembre 1940, aveva cacciato indietro le “male armate” Armate italiane e dopo avventurose, impreviste soste a Bengasi e a Sirte, ero di nuovo approdato a Castelbenito con il Reparto per “riorganizzazione”. A fine Febbraio, primi di Marzo 1941 iniziò l’afflusso del X CAT, il Corpo Aereo Tedesco che veniva a darci una mano, anzi quasi due, con arrivi durante tutto l’arco della giornata dei famosi velivoli trimotori tedeschi Junkers, Ju.52/3M, che giungevano a stormi interi, oscurando il cielo di Castelbenito.
Polverose piste di atterraggio – Atterravano più apparecchi per volta, sollevando immense nuvole di sabbia, perché l’Aeronautica Italiana insegnava nelle Scuole Militari che in tante parti del mondo esistevano piste in asfalto e che a Bathurst (o Banjul) nel minuscolo Gambia, incastonato nel Senegal in Africa Occidentale (da non confondere –così raccomandavano- con gli omonimi aeroporti esistenti in Canada e in Australia) erano state costruite immense piste e immensi piazzali per mezzo di “grelle” cioè strisce metalliche perforate, agganciabili l’una all’altra, con cui si poteva ricoprire qualunque superficie (meno ovviamente quella del mare e delle sabbie mobili…) per renderla praticabile soprattutto agli aeroplani. Noi “allievi”, dopo averle viste in fotografia nel libro “Aeroporti” nella Scuola di Applicazione, le vedemmo dal vero solo nel 1944, quando gli Americani, dopo averle distese in tutte le parti del mondo, portarono le grelle anche in Italia per rendere praticabili i nostri polverosi o paludosi aeroporti, specie nel Sud ove difficilmente erano erbosi (vogliate scusare questa digressione “aeroportuale”, ma mi è proprio sfuggita dalla penna….).
Sbarca la Titti – Un pomeriggio, da uno dei 4835 esemplari di trimotori Ju.52 costruiti dai tedeschi, atterrato a Castelbenito, sbucò fuori, sternutendo in mezzo al polverone, un esemplare di pastore tedesco che di corsa si allontanò dalla pista in cerca di aria più respirabile ma soprattutto di un albero. Non erano questi che mancavano, in particolare sotto forma di palme da dattero, milioni delle quali costellavano il territorio e specie i parchi dell’aeroporto di Castelbenito. Il pastore, che poi appurai essere una “pastora”, non ebbe neppure l’esitazione o l’imbarazzo della scelta, perché si precipitò verso la prima palma che incontrò e… accucciata, sostò lungamente… Fu facile capire che si trattava di una “cana”, come la chiamava il mio fedelissimo attendente di Floridia (Siracusa), e che era molto bene educata: era evidente che aveva atteso tutto il tempo del viaggio aereo dalla Sicilia a questo aeroporto per… inumidire il nuovo (per essa) continente africano. Destò in me un moto di ilarità il ricordo di una barzelletta di un cane che corre nel deserto e guarda disperatamente intorno pensando: “qui, se non trovo un albero… me la faccio sotto”. Sistemata fisiologicamente, la “cana” tornò di corsa in linea di volo, ma il “suo” aeroplano non c’era più…!
Lasciata a terra – Le operazioni di scarico avvenivano con velocità e precisione tutte teutoniche: rampe inclinate, sollevatori a forca, piani scorrevoli, tutto predisposto per le migliaia di fusti, di bombe, di casse, di automezzi, di cui venivano celermente svuotati gli aerei e trasportate e accatastate ai limiti dell’immenso campo, nella zona “CAT” (Corpo Aereo Tedesco). Gli aerei, cosi rapidamente svuotati, rullando per linee esterne andavano al punto di partenza e decollavano, si può dire “inseguiti” dagli altri Ju.52 che atterravano. La povera “pastorella” rincorse velivoli in partenza, in mezzo alle nubi di sabbia, annusando le pareti delle fusoliere, rischiando di essere travolta dalle ruote dei carrelli di atterraggio, o dalle eliche, andò incontro ad altri aerei in arrivo, speranzosa, ma invano. Il “suo” aeroplano era partito: dentro c’era il suo padrone, il suo “idolo” che l’aveva – anche se involontariamente e per cause di forza maggiore- abbandonata…; o lei era una clandestina casuale? Chi sa?!
Un nuovo amico – Il fatto è che ora era sola, su un territorio sconosciuto alla vista, agli odori e alle temperature abituali: la posizione delle orecchie abbassate, della coda fra le zampe dicevano lo smarrimento, lo sconforto, la delusione, l’incertezza di questa bella e pelosa creatura. Mi vide da lontano e trotterellando mi raggiunse; mi osservò da tre o quattro metri con sguardo indagatore e già fiducioso; poi venne ad appoggiare un lato del muso su una mia gamba, vi passò scorrendo con tutto il corpo, che si sentiva forte, asciutto, muscoloso e potente, agile e scattante, e si sedette davanti a me guardandomi fissa, con aria buona e serena, non implorante, come ispirata a una immensa fiducia e dedizione: mi aveva fiutato, aveva sentito gli odori “psicologici” del bipede che non le avrebbe urlato “pussa via” e magari mollato un calcione, ma che si rendeva conto dei suoi problemi… Le carezzai la testa, così le sue orecchie e la coda tornarono in posizione eretta: mi seguì senza esitazione e poi trotterellò al mio fianco fino alla mensa, dove cucinieri compiacenti la sfamarono ampiamente: sono convinto che fu la prima volta in cui la nuova amica a quattro zampe gustò i maccheroni al ragù; ma in giro c’erano anche tanti avanzi di carne lasciati dai bipedi non affamati: a Castelbenito si viveva ancora discretamente, e il periodo delle vacche magre era ancora abbastanza lontano…
Titti si ambienta – “Titti”, così battezzai questa femmina di pastore tedesco a pelo corto, si dimostrò soddisfatta: le trovai da dormire in una “zeriba” (capanna di abitazione con scheletro di tronchetti e rivestimento di foglie di palma) tutta per lei, vicino agli alloggi e al “gabbiotto” in cui era tenuta “prigioniera” un’aquila e alle cui pareti si arrampicavano flessuose buganvillee dai colori violenti: un vero paradiso per chi avesse visto e sperimentato, come me, le desolate pietrose distese della Marmarica! Titti prese a seguirmi dovunque fosse permesso: in linea di volo troneggiava sui cumuli di bombe, anche quelle di cemento da 160 chili, da esercitazione, approvava o disapprovava con vario abbaiare o ululare gli atterraggi “al velluto” o quelli “a padella” che ogni tanto capitavano. Quasi tutte le sere, con gli amici del Gruppo Caccia del Capitano Giuseppe Baylon, con Gasperoni, Merati e altri, andavamo lungo i viali della zona logistica dell’aeroporto, cantando a più voci, nei rari momenti di spensieratezza, canzoni melodiche più o meno sentimental-romantiche come “Stella d’argento del Messico d’or, il tuo splendor mi fa morir di nostalgia… , o quanti ricordi, fai vivere tu, stella d’argento che brilli lassù…”, alle quale immancabilmente seguiva: “Son fili d’oro i tuoi capelli biondi, e la boccuccia è rosa, gli occhi tuoi belli, son neri e fondi, e non mi guardano ancora…”: le ultime parole di questa canzone venivano sempre, immancabilmente sostituite -riferendoci agli aeroplani inglesi e alle loro caratteristiche rispetto a quelle dei nostri caccia, CR.42 o G.50 che fossero- da: “…son più veloci, e al Ministero non lo sanno ancora…”! La Titti stava incollata col corpo a una mia gamba, sembrando partecipare alla generale commozione e al disappunto, e una volta si lasciò sfuggire ululati che, nelle sue intenzioni, dovevano fare da controcanto e da finalino…: naturalmente la nostra canzone finì in una sonora risata collettiva… ma intanto gli apparecchi inglesi erano veramente più veloci e più armati e, a pensarci bene, c’era poco da ridere!
Titti torna a volare – Quando potevamo “giocare”, le insegnavo a saltare, prima su una mia gamba tesa, poi su un braccio e infine sulla mia testa, dove passava con la leggerezza di una ostacolista da Olimpiadi; Titti ci si divertiva moltissimo e soltanto una volta, che forse Titti era un pò distratta, dovetti mandarla a recuperare il berretto che mi aveva fatto saltare dal capo. Che l’avesse fatto apposta, per farmi uno scherzo? Poi la portai in volo…: dovevamo fare tappa su vari campi con un trimotore Ca.133, detto “la caprona”, che portava tutto e di tutto; volava da sola, non c’era bisogno di fare quota: la “Caprona”, preso l’avvio, volava seguendo il profilo del terreno (anticipando di tanti decenni la tecnica del “low profile”) come avesse avuto un apposito radar; sentiva le dune e le risaliva a quota costante dal terreno, per poi scendere negli avvallamenti fra una duna e l’altra; Titti era felice di stare presso il portellone laterale aperto, sicuro in aria calma, e di abbaiare ai conigli selvatici o lepri che fossero, a qualche sparuto sciacalletto, ai rari dromedari. Le prime volte, dopo l’atterraggio non voleva scendere dall’aereo forse scottata dalla sua dolorosa esperienza; poi capì che non ero il tipo da abbandonarla e mi seguì anche a terra, senza peraltro perdermi di vista…
Titti nominata secondo pilota – Le feci il “libretto dei voli” annotando il tipo del velivolo, giorno del volo, ore e minuti di durata, quota, specie della missione. Titti raggiunse il massimo della felicità quando fu nominata “secondo pilota”, dopo essere diventata una esperta di “osservazione dall’aeroplano”; quel giorno, per premio, ebbe una intera spigola da più di un chilo, da me “pescata”, con tante altre e con branchi di cefali, con le bombe nell’insenatura di Ain El Gazala. Cosi Titti volò sul Ca.133, sul Ca.109 “Ghibli”, sull’S.81 e una volta, con mio fratello, su un S.79 del 27° Gruppo dell’8° Stormo sull’aeroporto di Martuba. Poi ci fu il rientro in Italia: con la complicità del capo-equipaggio di un S.81 riuscii a portare la Titti da Bengasi a Lecce, anche se ogni grammo a bordo era prezioso quando si rientrava dall’Africa in Patria: c’erano sempre tanti feriti!
Addio Titti – E a Galatina di Lecce dovetti separarmi da lei, perché non c’era proprio posto sull’S.82 con cui raggiunsi Roma, anche se il Capo equipaggio era un mio vecchio amico d’infanzia; Titti ebbe la fortuna di essere affidata a un mio altro compagno di corso, in servizio alla Difesa Aerea dell’Aeroporto. Poi, per molto tempo non ne seppi più niente, perché pochi giorni dopo il mio rientro in Italia (dopo tanto tempo in Africa Settentrionale) partii da Roma per l’Egeo con un altro S.82. Era il 19 Dicembre 1941, giusto il tempo di passare un altro Natale in zona di operazioni di guerra. Tornai a casa nell’Agosto del 1945, dopo avventurose esperienze nel Mediterraneo Orientale, in Turchia, Siria, Libano, Palestina, Egitto. Ripreso servizio in Patria, alla prima occasione utile di un passaggio per Galatina di Lecce, chiesi ai “vèci” dell’aeroporto notizie di una femmina di pastore tedesco, approdata anni prima con un aereo proveniente dall’Africa Settentrionale. Qualcuno ricordava bene quel bellissimo esemplare anche perché aveva la “strana” abitudine -dicevano- di andare spesso alla linea di volo ad annusare aerei in arrivo o in partenza, e qualche volta a rincorrerli. Poi mi dissero che si era “sposata”, inondando la base di bellissimi cuccioli, che andavano a ruba fra gli “amatori” del genere. Poi… nessuno sapeva il seguito: la Titti era semplicemente sparita, così inavvertitamente come era arrivata. A me è rimasta una sua fotografia, e il ricordo di ore passate insieme, a terra e in volo, più o meno drammaticamente, in tempo di guerra, sperando vivamente che 1a Titti avesse trovato un altro “bipede” meritevole delle sua fiducia e compagnia.
a cura di Giuseppe Sabbatini
30 luglio 2024