Nell’ambito di un Convegno del Centro Studi Storici Maceratesi, svoltosi all’Abazia di Fiastra il 19/11/2022, Furio Cappelli, volendo ironizzare sul Centro Studi San Claudio al Chienti, ha tenuto una relazione dal titolo provocatorio: “Una pieve in Val di Chienti, tra storia, metastoria e magia”. Se la relazione orale si poteva considerare rozza e superficiale, molto diverso è stato il testo scritto, pubblicato l’anno successivo sugli Annali del prestigioso sodalizio. Tra l’esposizione orale e la pubblicazione lo Storico ascolano ha studiato e approfondito seriamente l’architettura maceratese, lasciando nella versione scritta solo il titolo e la parte finale della relazione del 2022.
Se non si fosse dilungato troppo su una struttura sostanzialmente moderna come il Taj Mahal (del XVII sec.), però, avrebbe potuto approfondire maggiormente San Claudio e quindi non fare errori grossolani, come quando afferma a p. 26: “la chiesa rientra tuttora nell’ambito di quella distrettuazione, e l’arcivescovo in persona ne è il titolare, affidando la cura delle anime a un parroco locale che funge da vicario” (Cappelli Furio, Atti del LVII Convegno Centro studi storici maceratesi editore, 2023; stampato con il contributo di Regione Marche). No, San Claudio è parrocchia. Un Decreto Ministeriale del 19/12/1986 in G.U. n. 4 del 7/1/1987 la definì ente ecclesiastico civilmente riconosciuto. La parrocchia fu annotata nel registro delle persone giuridiche del Tribunale di Macerata al n. 53 il 03/04/1989. Dopo mille anni, il vicario abbaziale perdeva il suo titolo per acquisire quello di parroco. (Giustozzi Piero, Da Montolmo a San Claudio amici per il fiume e altre storie, p.124, Corridonia, 2023).
A pag. 24 (ibidem) Cappelli afferma che Germigny-des-Prés ha una ripartizione degli spazi in 9 quadrati. No. E, se Cappelli avesse studiato Gillo Dorfles, non avrebbe fatto un simile errore: è comunque comprensibile che non possa segnalare quello studioso triestino che ha osato citare in un suo manuale scolastico l’Innominabile (Carnevale Giovanni n.d.r.). Non è comprensibile, invece, che Cappelli non abbia letto, magari di nascosto, ciò che il prof. Dorfles ha scritto a p. 69 del secondo volume “Dall’arte paleocristiana all’arte gotica” (Dorfles G. Ragazzi M., Civiltà d’Arte, casa editrice Atlas). Ma ovviamente ha studiato la Sahler. Nella sua “nota del curatore” dell’edizione italiana del 2006, Furio Cappelli (Sahler H., S. Claudio al Chienti e le chiese romaniche a croce greca iscritta nelle Marche, ed. Lamusa, 2006, p. 7-10) condivideva l’impostazione della studiosa tedesca di una ispirazione lombarda della Chiesa di Corridonia. Nella relazione pubblicata nel 2023 sugli Atti del Centro Studi Storici Maceratesi, al contrario, fa derivare (giustamente) la planimetria dal Medio Oriente. Sull’alzato, cioè il costruito, ha dovuto, diplomaticamente, continuare a insistere sull’origine nordica del modello di San Claudio ma, essendo evidente che non assomiglia a San Satiro di Milano, a San Giovanni di Cantù ecc., ha preferito chiamare “in causa Ravenna” scrivendo: “è evidente un influsso nordico (o romagnolo se si preferisce), piuttosto che vagamente orientale” (ibidem p. 29).
A pag. 13 Cappelli afferma che l’architettura aveva goduto di una ininterrotta fortuna in quel crogiuolo di civiltà che fu il Medio Oriente. Riconosce, finalmente, l’eredità ellenistico-romana, mediata dalla Siria e l’eredità della Persia Sassanide che ha le proprie radici nei Babilonesi. Il capostipite del modello, per Cappelli, sarebbe il tempio di Kish, fatto costruire da Nabucodonosor nel 590 a.C. (ibidem p. 20) e la porta monumentale di Ishtar (575 a.C.) (ibidem p. 30). Lo schema venne trasmesso alla Persia a Susa (Ayadana) e al tempio partico del sole in Hatra (I sec. d.C.), per poi passare in Palestina nel II sec. nel sepolcro di Kasr an-NuweiJis (ibidem p.21) e poi nel castello di Khavarnak in Mesopotamia, del 418 d.C. (ibidem p. 18); quindi nella grande basilica cristiana in Siria di Qal’at Sim’an (474-491) e nella chiesa centrale a croce greca iscritta di Rusafa, sull’Eufrate, che anche lo Studioso identifica come sala delle udienze dello sceicco al-Mundhir (569-582 d.C.), dopo il ritrovamento di una epigrafe. Subito dopo, nel 624-631, venne costruita la cattedrale nella storica capitale Armena di Bagaran “guarda caso in un naturale crocevia tra la Siria, la Persia e l’Anatolia” (ibidem p.23).
Cappelli dimentica però di citare la cattedrale del ‘Vaticano’ armeno di Wagharschapat che, avendo tutte le campate uguali, assomiglia maggiormente a San Claudio. Finalmente e giustamente, Cappelli si sofferma brevemente sul palazzo omayyade di Khirbet el Mafjar vicino Gerico, in Palestina (739 d.C.), che il prof. Carnevale nel 1992 (Provincia di Macerata anno II, n.2, aprile 1992) aveva posto come modello più simile della Chiesa di San Claudio, e l’accosta, invece, all’oratorio vicino Orléans, in Francia, scrivendo infatti: “l’esempio più antico disponibile in Europa è l’oratorio del Salvatore…” (ibidem p. 23). Molto singolare è il rapporto che Cappelli stabilisce tra Germigny-des-Prés e la chiesa di Aachen, infatti scrive: “A complicare le cose nel Medioevo l’oratorio di Teodulfo era considerato una derivazione della cappella palatina voluta da Carlo Magno in onore del Salvatore e della Vergine nella sua reggia di Aquisgrana (l’attuale Aachen).” […] “Nel caso di Germigny-des-Prés le differenze con il prototipo sono troppo evidenti perché le si debba enumerare, come si spiega? Si trattava di una filiazione per così dire simbolica e morale, allusiva, il che era peraltro inevitabile perché una copia fedele sarebbe risultata inappropriata e difficilmente realizzabile a scala ridotta e a ridosso della fastosa realizzazione carolina, quando ancora non era stata ‘storicizzata’ (questo spiega il ben altro grado di fedeltà delle copie realizzate a partire dal sec. XI). L’allusione, in sostanza, reggeva sull’adozione di una pianta centrale, sulla presenza di un doppio polo liturgico sull’asse principale (est-ovest) e sulla cura degli aspetti decorativi, meno eclatanti ma comunque spiccanti nel caso di Teodulfo, il quale ricorse all’opera di musivari e plasticatori di notevole talento” (ibidem p.25).
Siccome Teodulfo è stato il committente di un oratorio, quadrato, che doveva imitare la chiesa fatta costruire da Carlo Magno, come mai la chiesa di Aachen è ottagonale? E quindi non è stata imitata dall’oratorio quadrato di Germigny-des-Prés? A questo punto Cappelli può solo provare a convincere gli osservatori che un quadrato assomiglia a un ottagono e, per ottenere questo risultato fantasioso, si improvvisa poeta e usa gli aggettivi simbolica, morale, allusiva. Ma una struttura edilizia si può vedere, toccare, è quindi reale e non simbolica! Cosa c’entra la morale di cui parla? Cosa c’entra l’allusione di cui parla? Se anche solo elemento trovato in uno scavo archeologico potesse non avere alcun significato, allora sarebbe inutile scavare, sarebbe inutile l’Archeologia.
Anche quando lo Studioso ascolano afferma che la chiesa ottagonale di Aachen sarebbe stata “difficilmente realizzabile a scala ridotta” lascia sconcertati: ma veramente qualcuno potrebbe credere che un edificio non possa essere realizzato a scala ridotta? Cappelli ha attribuito a Teodulfo l’affermazione di aver fatto una “copia fedele” della chiesa di Carlo Magno, quando, invece, il Vescovo aveva scritto: “costruita sulla base del modello della cappella Palatina di Aquisgrana” (C. Heitz, Enciclopedia dell’Arte medievale, 1995): la traduzione di C. Heitz è sulla base del modello e non copia fedele. Indubbiamente ‘copia fedele’ è diverso da ‘sulla base del modello’. Perché la chiesa di Aachen sarebbe stata un “modello inappropriato”, secondo Cappelli, tanto che Teudulfo invece di farla ottagonale l’avrebbe fatta quadrata? È vero che i musivari e i plasticatori sono stati di notevole talento, ma sono vissuti e hanno operato nel 19° secolo quando la chiesa è stata rifatta. Infatti Heitz, pur citato in bibliografia da Cappelli, scrive: della “ricca decorazione a stucco di cui si sono fortunosamente conservati alcuni frammenti” (C. Heitz, Enciclopedia dell’Arte Medievale, 1995). Quindi della chiesa originale erano rimasti alcuni frammenti.
Ancora Cappelli scrive: “Secondo una vulgata disponibile su alcuni siti Web di area maceratese, l’oratorio francese non possedeva in realtà un’abside sul lato occidentale. Sulla base della relazione degli scavi condotti da Jean Hubert nel 1930, risulterebbe infatti che l’abside ovest era stata realizzata negli anni 1867-1876. Sul Web si legge inoltre che la stessa era ancora in piedi nel 1930 ma fu eliminata in un momento successivo, indeterminato. Ma questa abside, individuata proprio dagli scavi, era bensì presente in origine e venne demolita già in età romanica per dare poi luogo a un ampliamento dell’edificio a ovest, realizzato nel secolo XV-XVI e tuttora evidente, l’aspetto curioso dell’affermazione riscontrata, quale che ne sia il nobile scopo, non sta tanto nella “meticolosa” citazione di Hubert, quanto nella totale improponibilità dell’assunto a semplice livello di buonsenso. Se nel sec. XIX fosse stata davvero aggiunta un’abside di restauro, più o meno arbitraria, perché la trasformazione rinascimentale non venne contestualmente eliminata?” (ibidem p. 24 nota 2).
Sicuramente il sottoscritto non ha mai sostenuto che nel 1930 la chiesa originale di Germigny-des-Prés fosse ancora in piedi, compresa l’abside ovest, e in nessun sito Web di area maceratese è mai stato scritto che sia stata eliminata in un tempo indeterminato successivo. No, Hubert afferma di aver scavato nel 1930 e la Sahler, avendone riportato la piantina senza contestarla, l’ha quindi presa per buona ed è lei che Cappelli deve eventualmente contestare, senza fare giochi di prestigio per confondere gli studiosi. Sia nell’edizione in tedesco del 1998 che in quella del 2006 alla tavola 150 (diconsi tavola 150), la studiosa ha riportato la relazione di scavo di Jean Hubert, (di cui ho parlato sui numeri 272 p. 24 e 297 p. 17 de “la rucola”).
Nella legenda che illustra la piantina originale di Germigny-des-Prés, viene indicato in nero, alla prima riga, ciò che Hubert attribuisce al IX secolo, e le absidi in nero sono 5 (diconsi cinque). L’abside ad ovest non è nera ma bianca, come si vede dalla legenda all’ultima riga: questa abside, infatti, secondo la legenda, è stata fatta tra il 1867 e il 1876. Cappelli avrebbe dovuto far notare “l’aspetto curioso” alla Sahler perché è solo lei l’autrice della tavola 150 che, invece, sbagliando, mi attribuisce.
Essendo Cappelli il curatore dell’edizione italiana di “San Claudio al Chienti e le chiese romaniche a croce greca iscritta nelle Marche”, perché ha lasciato che Lei sbagliasse? Ma veramente ha sbagliato? O semplicemente nell’803 non era stata costruita questa sesta abside che è stata aggiunta nella ricostruzione del 1867, datazione, però, che è della Sahler, ma sicuramente non mia. Il 7 luglio 2019 un anonimo ha inserito su Wikimedia, subito ripresa da Wikipedia in lingua tedesca, una falsa piantina della chiesa di Germigny-des-Près. Cappelli conosce se il falso è stato redatto in Germania oppure in Italia, in ambienti vicini al mondo teutonico? Di fatto Cappelli, comunque, anche se in modo molto contorto e negando l’origine carolingia di San Claudio al Chienti, alla fine ha dovuto ammettere che la chiesa tedesca di Aachen non è Aquisgrana.
La piantina “vera”
Questa qui sotto è la piantina “vera” di Germigny-des-Près, quella pubblicata sia su La rucola n° 272 che sulla n° 297, in questo secondo numero insieme con la piantina “falsa” dove figurano solo 3 absidi anziché 5 (come invece ha San Claudio al Chienti). Vale a dire: ma quante se ne inventano per screditare ciò che non fa comodo?
Il consiglio di Albino
Consiglio al Centro Studi Storici Maceratesi di farsi pagare il prossimo volume in cui saranno riportate le tesi esposte nel convegno di Montecosaro (2024) dal governo tedesco e dalla Renania Settentrionale-Vestfalia e non da Regione Marche, come nel 2023. Visto che stanno lavorando per i tedeschi almeno non lo facciano pagare ai marchigiani!
Albino Gobbi
13 maggio 2024