Di mia nonna ho solo foto col fazzoletto in testa. Mia moglie si è sposata col velo sul viso. Durante il lutto, all’abito nero, si accompagnava di norma il fazzoletto (pure nero) in testa. In generale, prima del Concilio, per le donne era “da sfacciate” entrare in chiesa a capo scoperto. D’altra parte, nella nostra tradizione, la Madonna è abitualmente rappresentata col velo (azzurro) e il copricapo delle suore non è che una variante del velo nuziale. Volgere lo sguardo all’indietro (a non più di un paio di generazioni fa) ci può aiutare a capire come mutano i costumi in fatto di vestiario e quanti sacrifici è costata (soprattutto alle donne) la liberazione dai condizionamenti sociali. Ci può aiutare a capire i comportamenti di persone di altri popoli, coi quali la globalizzazione ci mette a contatto. Due problemi in particolare si pongono: 1) origine della tradizione del velo nei popoli mediterranei; 2) imposizione, libera scelta o condizionamento sociale in fatto di velo.
1) Nelle società matriarcali presumeriche della Mesopotamia il velo era simbolo della fertilità femminile e della dignità della donna in quanto creatrice di vita. Poi i Sumeri lo permetteranno solo alle donne nobili, escludendo le donne comuni e per gli Assiri il velo era esclusivo privilegio delle donne nobili sposate, per difenderle dallo sguardo indiscreto del popolo. Nelle religioni monoteiste (ebraismo, cristianesimo, islamismo) il copricapo acquisisce dignità sacrale ambivalente: è simbolo della purezza, del dovere di rimanere concentrati sul divino senza subire condizionamenti esteriori, ma diventa anche simbolo della donna sottomessa all’uomo perché “la donna viene dall’uomo” e “capo della donna è l’uomo” (S. Paolo, 1 Corinzi, 11, 1-16) e diventa dettato divino “o profeta, di’ alle donne dei credenti che si ricoprano dei loro mantelli” (Corano XXXIII, 59). Così passerà nel mondo greco (la donna “onesta” si vela prima di uscire) e nel Medio Evo cristiano che lo renderà obbligatorio alle donne in chiesa e quando escono di casa a dimostrare che “non sono come Eva”, nell’implicito riconoscimento che gli uomini non resistono alla tentazione delle chiome al vento, simbolo -appunto- di seduzione e sessualità. D’altra parte nel rito di consacrazione delle monache l’imposizione del velo mantiene il duplice significato di disprezzo delle vanità del mondo e di sottomissione allo sposo (Cristo). I tempi più recenti ne confermano l’ambivalenza: identifica nel contesto monogamico la donna sposata, dunque “non disponibile”. In vero, le donne hanno dimostrato nel tempo la capacità di saper comunque riscattare l’imposizione del velo: nato per togliere visibilità è stato trasformato dalla creatività tipicamente femminile in vezzo e strumento di maggior seduzione nell’ambiguità del vedo/non vedo, del coprire/scoprire.
2) Circa l’obbligatorietà del velo si può ricordare una disputa teologica che coinvolse nel 1825 in Sardegna parroci e gesuiti sul cosiddetto “parapettu”, un velo imposto per coprire il seno: le donne, ricorrendo al “parapetto mobile” condannarono all’irrilevanza la disputa teorica e moltiplicarono il loro sex-appeal. Ammesso che si possa assimilare il velo islamico al fazzoletto delle nostre nonne (ma non è scontato per tutti) si discute tra i giuristi islamici se per il Corano il velo sia obbligatorio o soltanto raccomandabile, come segno della dignità della donna e come strumento per preservarne il pudore. E comunque, secondo l’Islam più tradizionalista, il velo sarebbe manifestazione di vita conforme alla legge religiosa che impone modestia e pietà, mentre per gli antislamisti e gli islamisti progressisti sarebbe solo il segno di sottomissione.
Perché le nostre nonne portavano il velo e/o il fazzoletto? A memoria nostra, per qualcuna contava l’abitudine, per altre la pressione sociale o l’imposizione del marito. Non vigeva certo l’obbligo formale, anzi il costume s’è evoluto proprio perché non c’era l’obbligatorietà che ha favorito la maturazione e la scelta di comportamenti liberi. Anche per alcune donne musulmane il velo è segno d’identità, per altre segno di sottomissione: io penso che vadano rispettate le une e le altre, senza ricorrere mai a strumenti tipo “le ronde del pudore” perché, dalla storia, ho capito che l’autodeterminazione -come la democrazia- non si esporta, non si impone dall’esterno, ma la si conquista lentamente e nessuno e niente possono sostituire il processo di maturazione che ognuno deve necessariamente fare per conto proprio.
Enzo Monsù
11 gennaio 2024