Un’arte che vive e rivela: Vivì Medori, un artista maceratese dal linguaggio informale

Nell’ultimo saluto celebrato qualche settimana fa, nella chiesa di Santa Madre di Dio, affollatissima di familiari, amici e colleghi artisti, si è avuta dimostrazione di quanto William Medori, in arte Vivì, fosse amato e considerato sia come uomo sia come artista. Prima del suo decesso aveva dato disposizione di donare molte sue opere agli amici presenti, chiedendo di scrivere sulla sua bara ciascuno una dedica.

Nella militanza artistica Vivì si era introdotto nell’ultimo ventennio della sua vita, da autodidatta, bruciando le tappe, distinguendosi subito per originalità di stile e temperamento, imponendosi come personalità tra le più forti e creative degli ultimi anni. Tempra e fervore, intelligenza creativa e generosità, passione e consapevolezza storica, hanno fatto sì ch’egli lasciasse un segno di grande originalità e passione. Consideriamo sommariamente alcuni aspetti della sua ricerca. Aveva scelto l’Informale, il più libero e democratico dei linguaggi artistici: medium duttile capace di testare e trasmettere le sensazioni profonde dell’animo, trovando per esse anche una giustificazione estetica, oltre che espressiva.

Di fronte a temi introspettivi e sociali l’urgenza dell’azione pittorica di Vivì si è ammantata all’inizio di lirica e pensosa malinconia. La sua tavolozza spesso drammatica e cupa ricordava i carboni di Kounellis o i segni ribelli di Basquiat. La conoscenza e l’ammirazione che egli aveva dell’arte americana induce a crederlo; scenari labirintici dove la figura umana è assente pur avvertendosene la presenza e il disagio: una versione “black” del male di esistere in un coagulo di verità e pulsioni di origine esistenziale, oltre che metropolitana, riconducibili anche alla globalizzazione ormai incalzante.

Vivì esalta nelle sue opere tali sensazioni, in un certo senso le storicizza all’interno di una peculiare vicenda emotiva, e le trasmette in modo coinvolgente, con la passione fresca del neofita, e con una verve caratteristica dell’individuo schietto e sensibile che egli è, sulle orme dell’amico Vittorio Vittori, che gli è stato precursore in passione e libertà espressiva. E altrettanto incisiva è stata la vicinanza di Silvio Craia che egli aveva eletto sin dalle prime esperienze suo indiscusso maestro. Ne frequentava lo studio quasi giornalmente, pur affinando nel tempo una sua téchne sempre più autonoma e riconoscibile. Sensibile al variare delle stagioni –  e delle sue stagioni! – conseguente a una ricerca densa di sperimentazione e cambiamenti.

Dalle prime prove realizzate con l’uso di inchiostri e smalti, nell’assoluta ieraticità del bianco e nero, aveva incontrato la luce e le sue infinite suggestioni, assumendo il colore in una gamma sempre più vasta, e poi la materia, tratta dalla povertà dello scarto, assemblata in collage con l’emozione e l’improntitudine virtuosa del visionario immerso nel presente, nell’emozione del tempo breve, assoluto. Aleggia nelle sue opere anche un desiderio di memoria, vicina e lontana in riferimento al tempo che passa e che in qualche modo “strazia” ed “erode” a livello esistenziale e psicologico la drammatica caducità che sovrasta ogni realtà umana. Le opere di Vivì rivelano i giorni e, come in un intimo diario, il “rifugio” che l’arte può offrire nelle stanze più intime e personali, in un desiderio di confidenza e di comunicativo abbandono. Man mano aveva scoperto le iridescenze della materia, la sua fastosa ricercatezza, e in essa la preziosità del sogno, in particolare di quel grande interminabile sogno che l’arte sa offrire. Quel suo nomignolo, “Vivì, si è dimostrato profetico nel testimoniare le sue vive sensazioni, i suoi entusiasmi, l’immensa generosità e l’impetuosa passione, sia nell’esercizio dell’arte sia nella vita. 

Lucio Del Gobbo

20 novembre 2023

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