L’abbazia imperiale di Farfa mille anni fa estendeva il dominio anche sul Piceno

Gli ispiratori di questo articolo sono le due associazioni “Centro Studi San Claudio al Chienti” di Corridonia e l’Associazione “Pro Rambona” di Pollenza. Con l’arrivo della buona stagione e la ritrovata libertà post-covid, le due associazioni culturali hanno collaborato nell’organizzazione di una uscita domenicale alla volta dell’Abbazia benedettina di Farfa, luogo ameno in Comune di Fara in Sabina, in provincia di Rieti.

Se oggi il luogo è una frazione, in tempi andati, ben mille anni fa, era una potente abbazia a capo di un vero e proprio stato che s’incuneava tra il comitato di Fermo e il ducato di Spoleto. Pur avendo confini continuamente variabili, possiamo farci un’idea della vastità dei suoi possedimenti nel piceno, nel Comitato ascolano, fermano, nel ducato di Camerino e nell’anconetano grazie a un diploma dell’imperatore Enrico IV del 1084, ma si estendeva anche in Abruzzo, in Umbria, in Toscana. Citiamo – per brevità – l’Annunziata di Montecosaro, San Firmano lungo il Potenza, Santa Maria di Offida, San Marco a Ponzano di Fermo, ancora oggi mete turistiche e spirituali. Ma il luogo più importante è sicuramente Santa Vittoria in Matenano, che oltre a essere il centro amministrativo di Farfa, per due secoli ospitò stabilmente l’abate di Farfa e il tesoro dell’abbazia, abbandonata a causa degli attacchi dei briganti saraceni (almeno così si tramanda).

Visitare il suggestivo borgo, ben curato e gestito, incastonato tra i monti dove domina la fitta vegetazione, è sicuramente un momento di introspezione e purificazione aurica, di distacco dal resto del mondo: qui si può risiedere per una esperienza monastica o di ritiro, frequentare corsi di canti gregoriani, fare ricerche nell’antica biblioteca immaginando il paziente lavoro degli amanuensi medievali. Per quanto riguarda l’architettura, resta difficile immaginare la grandezza e l’affollamento dell’anno mille, i ripetuti rifacimenti, causati da distruzioni, terremoti, con conseguenti epidemie e abbandoni, fanno sì che poco si riconosca dell’aspetto originario e la sua sicuramente maggiore estensione, e relative pertinenze.

A parte le calamità, la spinta all’anonimato è stata sicuramente assecondata dalla chiesa di Roma. Quando questa riuscì ad appropriarsi di Farfa e di tutti i suoi possedimenti, non ebbe certamente interesse a conservare memoria di ciò che lì c’era stato, e pensare che ancora oggi è chiamata “abbazia imperiale”. Era infatti Farfa di investitura imperiale, cioè era l’imperatore a dare l’autorità e il possesso del dominio all’abate, a partire da Carlo Magno, che la arricchì di donativi e privilegi e la costituì appunto “imperiale”. Se la arricchì di donativi e privilegi, queste proprietà erano quindi dell’imperatore. E questo è noto. Poi, però, nei testi antichi disponibili che parlano non solo di Farfa ma in genere di tutto il centro Italia, si è continuato a scrivere che Carlo Magno e i suoi successori, fino a Federico II, fossero dei “ricchi egoisti e tiranni usurpatori del patrimonio di San Pietro”.

Qui viene spontaneo annotare che nei testi con l’imprimatur ecclesiastico è chiaro che queste descrizioni fossero dettate a rafforzare il dominatore che li finanziava, e si può comprendere che gli studiosi successivi si siano “fidati” nel riportare a loro volta questa immagine, della chiesa e dell’impero. Anche perché la maggior parte degli storici erano religiosi (preti – monaci ecc). Questo è comprensibile per le opere prodotte fino alla fine del 1800, ma chi ne scrisse successivamente, e fino a oggi o quasi, merita come minimo un rimprovero. Da storici, oggi, in primo luogo non si devono dare giudizi, ma contestualizzare gli avvenimenti storici senza essere di parte, tutto al più annotare che “così vennero descritti dai cronisti del tempo”, poi però si dovrebbero rileggere i documenti originali e comprenderli ripuliti dagli arricchimenti voluti dai committenti.

Il popolo sotto la chiesa non è che godesse di tanto benessere, ori e opere d’arte non si trovavano nelle case dei contadini. Un esempio pratico vicino a noi: leggendo il “Capitulare de villis” di Carlo Magno, si viene a conoscere quanta cura e organizzazione avesse l’imperatore per sfruttare il territorio per il suo beneficio e quello dei sudditi; leggendo la storia, tanto per dire, dell’Abbadia di Fiastra, si noterà quanto l’interesse del Vaticano fosse di prendere da queste fertili terre, e poco dare: quando la gestione fu in mano non a nobili locali, ma ai suoi cardinali commendatari, tra il 1400 e 1500, pur realizzatori di restauri sulla chiesa e di case ai coloni in sostituzione delle capanne di paglia, questi commendatari lasciarono in eredità ai gesuiti un mezzo squallore.

Riportiamo un passo tratto da un nostro articolo del 2018 (nello stesso sono citate le fonti): “Alla morte dello Sforza nel 1581 (ultimo commendatario), papa Gregorio VIII tolse il titolo di abbazia e affidò tutte le proprietà alla Compagnia di Gesù, che a eccezione di chiesa e chiostro, trovò gli edifici in rovina (evidentemente le persone incaricate dai commendatari non erano state all’altezza di gestire gli ampi possedimenti). Dopo aver dato sistemazione ai cistercensi presso una chiesa di Roma, dove furono trasferiti dopo essere stati per cinque secoli nell’abbazia, i gesuiti si misero all’opera per ristrutturare le case coloniche, e soprattutto riorganizzare l’attività agricola. La proprietà era di complessivi 1610 ettari, divisi in 14 ‘possessioni’, unità fondiarie coltivate da altrettante famiglie di coloni. In verità 1/3 della tenuta era praticamente incolto, tra prati e boschi che venivano utilizzati per l’allevamento degli ovini”.

Ancora oggi, malgrado gli strumenti e gli studiosi a disposizione, siamo mentalmente condizionati dal potere materiale ormai morente dello Stato Pontificio, che oppresse pesantemente la popolazione allo stesso soggetta. Pur conoscendone oggi tante malefatte, che nulla hanno a che fare con la spiritualità, ancora stiamo a stupirci se imperatori e loro figli e condottieri hanno continuato ad assediare per secoli i nostri comuni, a bruciare archivi (documenti falsificati?) e rivendicare palazzi e terreni. La Chiesa dovrebbe restituire al popolo la spiritualità, svanita insieme con la fiducia in essa, occuparsi delle anime limitando la passione per il potere temporale al giusto necessario per mantenere la propria struttura organizzativa, concedere il ritorno dei palazzi vuoti agli antichi proprietari o ai comuni, così non crolleranno, e almeno ciò che c’è rimasto dentro non sparirebbe come le migliaia di beni trafugati e ricomparsi nei musei stranieri o in collezioni private.

Tutte queste considerazioni le ha scaturite la gita a Farfa, e l’acquisto di un prezioso libro del 1969, “Santa Vittoria in Matenano” di don Giuseppe Michetti. Nello stesso viene descritto Carlo Magno costituire l’Abbazia Imperiale di Farfa, in seguito si dichiara più volte che gli imperatori erano tiranni e usurpatori di beni della chiesa. Non omettendo, per onestà, una certa confusione di giudizio causata dai continui litigi tra papa e imperatore. Ma si trova anche una traccia interessante sul testo: si parla di alcuni diplomi del 1200, trascritti da Colucci nel volume Antichità Picene XXIX, dove protagonisti sono membri della famiglia Milone. Costoro avevano delle terre non ben definite sui due versanti del Tenna, e si incastellarono a Santa Vittoria nel 1239. Chissà dove si trovava il loro castello? C’è un legame con Montemilone? O con il Milone cui Torre di Palme ha intitolata una piazzetta? Intriganti spunti di ricerca, che potranno servire ai copiatori seriali. Ce ne sarebbero anche altri, di spunti, ma li teniamo in serbo, magari per la prossima volta.

Simonetta Borgiani

24 agosto 2023

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