Caro vecchio forno di campagna: cottura del pane sì ma curava anche i reumatismi 

C’era una volta e in alcune case coloniche, poche, c’è ancora il forno. Era una casetta che aveva sotto uno spazio per la legna e, a circa un metro da terra, la bocca chiusa da un coperchio di legno con tanto di manico per aprilo e chiuderlo, con all’interno una lastra di lamiera. Esternamente era realizzato con normali laterizi, l’interno della camera di cottura rivestito con mattoni porosi con funzione di anti umidità, e refrattari, quindi resistenti al fuoco. Il suo scopo più importante era quello di cuocere il pane.

Nelle famiglie meno numerose il pane si faceva ogni 15 giorni, perché non si poteva sprecare tanta legna per cuocere poco pane; in quelle i cui componenti erano tanti si panificava ogni settimana. La nostra vergara era così brava da saper fare un pane che si poteva mantenere anche per due settimane restando sempre ottimo da mangiare. La “cerimonia” (era tale perché ci partecipava tutta la famiglia) iniziava la sera prima con il vergaro che aveva il compito di preparare tutto per accendere il fuoco la mattina molto presto e qui accadeva una simpatica scenetta ricorrente. Al vergaro era successo, magari dieci anni prima, di sbagliare la preparazione e di aver fatto bruciare il pane alla moglie per cui lei, ogni volta, glielo ricordava minacciandolo affinché stesse attento a non ripetere l’errore! Poi, con l’aiuto di una crescia (pizzetta) la vergara saggiava la temperatura del forno vedendo se la crescia bruciava e, rischiando solo quella modesta quantità, controllava se poteva infornare il pane senza correre rischi.

Ora vorrei per un attimo lasciare la grande festa della cottura per raccontare di come il forno veniva utilizzato pure per altre attività, oltre che a cuocere il pane. Appena diminuiva un po’ la temperatura s’infornavano “le crescie”, che erano le nonne della pizza (qualche pizzeria ancora le fa) ma venivano condite solo con cipolla e rosmarino poi, e solo dopo Cristoforo Colombo, anche con il pomodoro e, in tempi più recenti, con quasi tutto ciò che è commestibile. Verso la fine del mese di novembre il forno, giunto a bassa temperatura era usato, dopo aver tolto i cibi commestibili, per cuocere i pupi del presepio che i ragazzi o qualche genitore o zio “artistico” avevano plasmato con la creta.

Molti anziani erano affetti (purtroppo noi vecchi lo siamo ancora) da dolori reumatici e i medici, non essendoci a quel tempo medicinali ad hoc,  consigliavano di tenere l’anziano il più possibile al caldo/asciutto per cui, quando la  temperatura del forno, finita la cottura, era un po’ scesa, il vecchio veniva infilato dentro meno la testa che restava di fuori: calore del forno lo riscaldava e i mattoni refrattari assorbivano tutta l’umidità. I nostri nonni dicevano che dopo una mezz’oretta di tale trattamento il sollievo era evidente e che, per qualche giorno, la persona stava meglio.

C’era un altro uso del forno. Una volta che il prosciutto, dopo la salatura, era stato appeso nel posto dove avrebbe dovuto passare un anno per avere la giusta maturazione, non era abbandonato ma il vergaro lo controllava periodicamente. Accorgendosi che, per qualche motivo, non si sarebbe mantenuto bene, quando la temperatura del forno, cotto il pane, scendeva, lo metteva dentro realizzando così  il “prosciutto cotto”, che era un ripiegamento e un modo per salvarne uno che altrimenti sarebbe andato a male. Oggi la pubblicità, questa mattacchiona, ci ha convinto che il prosciutto cotto è pregiato e di grande valore organolettico, quasi migliore di quello crudo. Mah… sarà! Tornando al forno, l’uso che ne facevano le nostre vergare era un esempio straordinario di come si poteva sfruttare una unica fonte di calore, data dalla legna presa dalle potature di alberi o da tronchi di piante non più fruttifere e quindi inutili. Ovvero saper sfruttare al massimo ogni possibilità data dalla natura.

Cesare Angeletti “Cisirino”

17 aprile 2023

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