Eh Si! È ancora arrivato il Natale. I negozi sono pieni di tante merci pregiate che si vorrebbero far pagare con la carta di credito per fare un dono alle banche. Via il profumo dei soldi, maledetti e necessari! In piazza hanno messo la parodia di un albero, finto e pieno di lucette tecnologiche cinesi. In chiesa campeggia un presepio con statue pallide in ceramica, e ci sono anche due robuste corna (ignorantemente le chiamo così) che hanno, però, un significato importante che non ho capito bene: mi pare che rappresentino fasci di grazia o di luce o…? Tra le navate della Perinsigne collegiata (Sant’Elpidio a Mare) echeggiano i canti Gospel, degni di una tradizione americana che oggi fa tanto chic, anche da noi. Nelle pasticcerie imperversa el Panetùn, che snobba le nostre ghiottonerie tradizionali. Eh, sì… È arrivata anche da noi la modernità.
Da povero vecchierello non riesco molto ad adeguarmi a tutto questo e ripenso al Natale che mi facevano vivere i miei genitori e i miei nonni. Nel nostro Natale c’erano gli zampognari. Mi ricordo questi personaggi che arrivavano in maggior parte dall’Abruzzo, nel periodo natalizio. Per pochi spiccioli suonavano le loro zampogne, lungo le strade e i posti dove si accalcava la gente per le spese necessarie ai banchetti casarecci delle feste. Erano tempi magri e la loro presenza ci ricordava come fosse difficile tirare avanti; a loro bastava poco per allietare la gente con le musiche, in attesa del Santo Natale… Con la zampogna poggiata sulla spalla destra fatta dal sacco di pelle di ovino, la ciaramella, le canne di ciliegio e ulivo, le ciocie che sembravano le “falanghe” per tirare in secco i gozzi, i gambali di pecora sorretti da strisce di pelli che tenevano i pantaloni alla zuava, la camicia pesante di flanella a quadrettoni, il mantello a ruota, il cappello nero poggiato in modo sbilenco sulla zampogna, la bisaccia sulle spalle; a noi bambini ci incuriosivano e nello stesso tempo ci intimorivano ma li seguivamo durante il loro faticoso percorso serale, di strada in strada, di casa in casa. A scuola studiavamo i versi adeguati alla natività. Ricordo ancora la poesia di Giovanni Pascoli:
Udii tra il sonno le ciaramelle, / ho udito un suono di ninne nanne. / Ci sono in cielo tutte le stelle, / ci sono i lumi nelle capanne. / Nel cielo azzurro tutte le stelle / paion restare come in attesa; / ed ecco alzare le ciaramelle / il loro dolce suono di chiesa…
In questi giorni ho appreso che in qualche zona c’è un ritorno alla zampogna per volontà di molti giovani musicisti. Perché non chiamarli per un concerto in chiesa? Non saranno americani, non saranno neri, non canteranno Gospel ma… vuoi mettere? Come iniziativa culturale mi piacerebbe anche poter sentire un esperto parlare di zampogne e ciaramelle. E, perché no? Anche di “Piva”, strumento della tradizione emiliana che fa riferimento alla stessa famiglia degli aerofoni a sacco, ma con differenze sostanziali. In ogni caso anch’essa, strumento natalizio scomparso. Molti oggi credono che la Piva sia una musica natalizia, e ignorano che è uno strumento. Le ultime pive sono state ritrovate circa 30 anni fa, in prossimità del crinale che separa le provincie di Reggio Emilia, Parma e Piacenza da quelle di Massa-Carrara, La Spezia e Genova. La cultura musicale dei suonatori un tempo si costruiva a orecchio e l’apprendimento dei repertori avveniva esclusivamente per trasmissione orale, di padre in figlio, e anche durante i balli che accompagnavano i rituali e le festività del calendario agricolo dei montanari. A casa, le mamme, ogni anno, ci facevano imparare le filastrocche:
Chiccolino chiccolino dove stai? Nella terra non lo sai?
Dio che bei ricordi… quanto mi piaceva! Saranno 50 anni che non sento più un bambino recitarla. Peccato, era una tradizione che oggi si è persa. Nei giorni dell’Immacolata noi bambini, sfidando il tempo freddo e piovigginoso, andavamo per fossi a cercare la “vellutina” per il presepio. Un familiare volenteroso chiuso in cantina creava casette col sughero e il cartone. Noi poi le avremmo dipinte sporcandoci il grembiule “di casa”. In città il sughero era usato dai calzolai che realizzavano le ciabatte estive per le massaie. Ne ricordo uno, scomparso negli anni ‘50, molto folkloristico: Peppe de Pallotta. Uomo di cuore ma dalla bestemmia facile. Non andava in chiesa, ma il sughero per il presepe ce lo cedeva volentieri, perché amava i bambini. Aveva una casetta gialla nel borgo e, insieme a Pettoro lo stagnino, incarnava il folklore dei borgaroli. La composizione del presepio era un evento di famiglia e tutti partecipavano, in vario modo, dicendo la loro opinione finché il capolavoro non era pronto. Erano piccoli presepi con statuine e scenografie arrangiate, ma erano ricchissimi di una cosa oggi rara: prendevano forma in una atmosfera intrisa dell’amore della famiglia.
Alberto Maria Marziali
6 marzo 2023