“Dove il cielo è più azzurro“, libro di Eno Santecchia edito da Edizioni Simple di Macerata

“Ciò che sembra non è e ciò che è non sembra” ci suggerisce l’autore invitandoci, come già fatto in altre sue pubblicazioni, a non fermarci alle apparenze. Si sa che queste a volte, anzi troppo spesso, ingannano se effettivamente basta osservare con occhio disincantato e curioso e capire che quanto ci circonda è reale, significativo e non frutto di una opinione o peggio ancora di un like.

Tutti oggi hanno un’opinione su tutto e questo può sembrare sospetto oltre che pericoloso; come si può avere un’idea di qualcosa che non si è visto, studiato, toccato, vissuto? Quello che ci suggerisce, quasi sotto voce, il nostro caro Eno è proprio questo: avvicinati il più possibile all’oggetto dei tuoi pensieri, delle tue curiosità e, perché no, dei tuoi desideri, osservalo attentamente con una sola contro indicazione, fallo con un minimo di fanciullesca curiosità, con sguardo puro e innocente, quasi ingenuo e vedrai quanto magari qualcuno non ha ancora visto e soprattutto lo avrai assorbito in modo tuo e autentico, perché per dirla con le parole di Hume “la bellezza delle cose esiste nella mente di chi le contempla”.

Perché Eno è eternamente fanciullo, un viaggiatore errante che attraversa viaggiando la vita con l’occhio e la curiosità di chi sa che ancora c’è tanto in questo mondo, ci avvisa che la meraviglia, il bello è intorno a noi, basta volerlo cercare e saperlo vedere. Come può un animo gentile e sensibile non vedere quanto sublime c’è ovunque anche lontanissimo dal nostro quotidiano, basta scomodarsi con un po’ di sacrificio per accorgersene e comprendere che chi vuole semplificare odiosamente la realtà tra noi con la nostra cultura e tutto il resto, sta banalizzando, privandoci di qualcosa cui non dovremmo rinunciare se è vero come dice Miguel Cervantes che “visitare terre lontane e conversare con genti diverse rende saggi gli uomini”.

Una mentalità diffusa, pigra di chiusura, una posizione culturale che Eno ha da sempre evitato, andando oltre il suo orizzonte quando è sceso non solo metaforicamente dalle dolci colline marchigiane per abbracciare lo spazio infinito del mare, imbarcandosi per il mondo in un viaggio continuo e senza ritorno, perché pur non rinnegando come tanti le proprie radici, è da lì che è partito per quel suo personalissimo percorso di scoperta del creato, fatto della natura che ci circonda e degli uomini che la vivono, che seppur distanti per età, censo e cultura, intervistati dall’autore tradiscono stesse emozioni e sentimenti che inevitabilmente li rendono tutti fratelli.

Anche Eno a modo suo, si domanda e dialoga con la natura come già fece in modo sublime un nostro illustre e straordinario conterraneo recanatese; pur non avendo la pretesa di accostare contesti impossibili, l’autore prospetta una Natura che potrà essere matrigna, domandandosi fino a quando potrà sopportare la nostra presenza ingombrante, con grave pregiudizio all’equilibrio dell’ecosistema in cui siamo nati; eppure secondo Eno c’è la possibilità di porvi rimedio. Ripartire dalle piccole cose, dai piccoli gesti di una quotidianità lungamente dimenticata. Anche la Natura stessa sembra dirci la stessa cosa, con un invito a sentirci coinvolti nel suo fragile equilibrio; lo si capisce nell’edificante racconto dell’oasi artificiale creatasi a seguito dei lavori della superstrada Valdichienti, dove si racconta di animali capaci di esprimere emozioni che ci commuovono nella loro semplicità.

Quale disarmonia il nostro comportamento potrà avere sull’ambiente in cui viviamo, sulla nostra esistenza, scordandoci del senso di responsabilità da porre verso il creato e dimenticando di farne parte. L’esito di questa arrogante dimenticanza non può che essere morte, distruzione e dolore. Eno nella carrellata di personaggi dotti, interessanti e singolari proposti ci suggerisce un altro spunto di riflessione che forse sarebbe bene farne tesoro. Oltre alla perenne forza creatrice di Madre Natura che rimedia sempre più a fatica ai disastri dell’uomo, figliol prodigo mai tornato alla casa del padre, dovremmo considerare un’altra forza anch’essa creatrice, delle donne che sanno esprimere con determinazione, amore e comprensione quei sentimenti potenti che regolano la vita di ognuno di noi. Ma le donne nel corso della Storia, come saggiamente raccontato dalla professoressa Marina Alberghini, hanno subito una millenaria sopraffazione che con tenacia, dolore e coraggio hanno sopportato, facendosi carico, si direbbe sulla propria pelle, di tutte le miserie umane.

È appena passato Ferragosto di questo faticoso 2022, ed è il primo anno che l’Afganistan è governato dal regime oppressivo dei Talebani, nessun politico, religioso o militare afgano ha opposto resistenza, una volta cessata la presenza occidentale nel paese, al ritorno “trionfale” degli studenti integralisti oscurantisti; sembra che siano tutti concordi ma le scene scioccanti della fuga in massa all’aeroporto di Kabul nell’immediatezza dell’insediamento sembrerebbe raccontarci un’altra realtà. Inutile rammentare la triste sorte dell’esser donna in un paese di integralismo islamico, dalle bambine private della formazione scolastica fino all’impossibilità per le donne a svolgere un qualsiasi lavoro remunerato; una quotidianità dura da accettare dopo vent’anni di illusoria libertà garantita dalla presenza militare occidentale.

  Eppure anche in questa terra arsa e inospitale è attecchito il seme fecondo dell’incontro. Seppur nell’immediata prospettiva di una negazione feroce e violenta di ogni possibile opportunità di emancipazione, alla vigilia dell’anniversario della conquista di Kabul per mano talebana, abbiamo assistito a qualcosa di straordinario lungo le strade disastrate della capitale afgana. Una protesta determinata e coraggiosa seppur isolata di donne al grido di pane, lavoro e libertà, disperse a colpi di AK-47 dalle milizie talebane di pattuglia. A un lettore distratto un episodio da terza pagina, assolutamente ininfluente per le sorti del regime in carica; vista da un’altra angolazione, come ci insegna Eno, la circostanza appare in tutto il profondo valore simbolico della manifestazione di coraggio di queste donne coperte in burqa, annullate nella loro identità dalla prevaricazione patriarcale, e scuote la sensibile coscienza al grido di pane, lavoro e libertà, esattamente come fecero i nostri avi nelle campagne soffocate dal latifondismo, all’alba del regime totalitario fascista. Pur sapendo quanto tempo e dolore è stato necessario per riconquistare il pane, lavoro e libertà, oggi sono le donne sanno portare con forza e coraggio il testimone degli oppressi, reclamando a gran voce un futuro migliore dove il cielo è più azzurro, un mondo nuovo per loro e per i loro figli, gli uomini e le donne di domani.

Andrea Bianchi

10 novembre 2022

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