Già! C’era una volta un modo di dire, usato da sempre dai nostri nonni, che suonava così: “Se vuoi far mangiare un figlio un giorno mandalo a un matrimonio, se lo vuoi far mangiare un anno ammazza il maiale, se lo vuoi far mangiare tutta la vita fallo far prete!” Ora facciamo una breve storia.
Origini dell’allevamento – Il maiale è stato addomesticato dai cinesi duemila anni prima di Cristo e il suo allevamento si è poi esteso a tutto il mondo. Da noi era animale che, lasciato libero ed essendo onnivoro, si ingrassava mangiando in giro quello che trovava, sino a raggiungere il peso giusto per la macellazione. Invece i maialini erano macellati piccoli perché, non sapendo anticamente come conservare la carne fresca, questa doveva essere mangiata presto.
Baratto e trattativa – Adesso vediamo qual era la situazione della nostra famiglia colonica per quanto riguarda l’alimentazione in generale. La vergara doveva far mangiare la famiglia usando ciò che la terra e gli animali di casa davano. Qualche rara volta con il baratto (perché lei non doveva comprare niente) poteva avere il pesce dalle venditrici che passavano con il carrettino. Il vergaro, quando vendeva un vitello, un toro, una vacca o altri animali di grossa taglia, alla fine della lunga trattativa diceva al compratore: “Sì, il prezzo mi va bene ma mi regali, poi, due chili di lesso o la coda e la testa o altri parti. L’acquirente ci stava e così il nostro bravo contadino portava a casa un po’ di ottima carne gratuitamente. Per il resto da maggio a ottobre i campi davano tanti e buoni prodotti. Le galline e i conigli, giunti al peso giusto potevano essere macellati e quindi l’alimentazione era assicurata.
L’inverno e il maiale – Poi da novembre ad aprile le cose cambiavano. Degli animali erano lasciati solo i riproduttori, perché altrimenti le scorte dei mangimi e del fieno non sarebbero bastate, e le galline non facevano le uova. La vergara aveva solo quelle che sapeva conservare in diversi modi. Si diceva, infatti, “Se d’inverno un contadì magna una gajina o sta male lu contadì o sta male la gajina”. Se si ammalava una gallina ed era commestibile veniva uccisa e mangiata e ciò avveniva solo in tal caso. Se si ammalava uno della famiglia la prima “cura” che si faceva era, appunto, un brodo di gallina ristretto da dare al malato per risollevarlo. Quindi la stagione invernale era proprio priva di risorse e allora il “salvagente” era il maiale.
Le fasi preparatorie della pista – Il giorno della pista era festa per tutta la famiglia ma i lavori preparatori iniziavano prima. Il vergaro più anziano ed esperto, con la mola azionata a pedale, dava con cura il filo ai coltelli. Le donne preparavano pannèlle e tovaglioli bianchi (tutta la teleria che si usava in cucina doveva essere bianca) che poi saranno usati dai “pistaroli”. Si compravano sale e pepe; il sale si prendeva grosso perché costava di meno e allora le ragazze, riempito e ben tappato un bottiglione d’acqua, lo facevano rotolare varie volte sul sale grosso che dopo un po’, con tale trattamento, diventava fino.
Lu piccarellu – Un’altra cosa che veniva preparata era “ lu piccarellu” (a che serve lo dirò dopo) ed ecco come si realizzava: si tagliava a metà un tappo di damigiana, di media grossezza, poi su una fetta si infilavano tanti spilli di quelli con la testa rotonda a forma di pallina usati dalle donne per fare i vestiti, e si facevano uscire da una parte tutte le punte poi si univa l’altra metà dalla parte delle capocchie e si legavano i due pezzi saldamente in modo di avere un oggetto con una trentina di punte: “lu piccarellu”!
La macellazione – Al mattino successivo veniva portato fuori il maiale e, con qualche sforzo lo si faceva sdraiare su una scala, appoggiata a due cavalletti legandocelo saldamente; qui esperto gli recideva con un sol colpo la vena iugulare. Ciò era assolutamente necessario perché così il maiale, con le ultime contrazioni espelleva tutto il sangue perché se ne fosse rimasto anche solo un po’ nel corpo la pista non si sarebbe conservata e sarebbe andata tutta a male. Il sangue era accuratamente recuperato e poi veniva lessato e mangiato con le cipolle, o come ambito condimento sulla polenta. Poi si lavava il corpo del suino con acqua bollente e quindi, con la parte non tagliente di un coltello, si raschiava il pelo che era messo da parte per fare i pennelli. Le due mezzene o “pacche” erano stese ognuna su una scala che veniva appoggiata al muro e lasciate lì tutta la notte.
La pista – Al mattino presto iniziava la festa. La mezzena era portata in cucina e appoggiata sul tavolo; qui la persona esperta nella suddivisione della carne (il “pistarolo”), iniziava il suo lavoro. Serviva un esperto perché un taglio sbagliato poteva mandare a male una parte importante del maiale, per esempio un prosciutto. Le prime a essere tagliate, con estrema precisione, erano le cosce posteriori che poi, trattate nel giusto modo, diventavano dopo un anno prosciutti. Poi le spalle che diventano le lonze e la parte più bassa, la pancia, “le pancette” e il guanciale. La parte più povera della testa e delle altre parti meno nobili del corpo, era staccata, tagliata a pezzetti e fatta bollire per realizzarci i cotechini e la coppa. In rari casi la vergara chiedeva che anche con le cosce anteriori si facessero i prosciutti ma questi erano di qualità inferiore. Poi si recuperava tutta la parte del grasso e magro e se ne lasciavano alcuni pezzi per mangiarli cucinati. Si toglieva la parte grassa in eccesso che, fatta bollire, diventava strutto da conservare nella vescica, lavata prima accuratamente e trattata con acqua bollente, che così diventava un ottimo contenitore nel quale si poteva conservare lo strutto a lungo senza che si deteriorasse. Il grasso e magro era accuratamente pesato e poi trattato con i vari condimenti per i quali ogni contadino aveva la sua dose e poi, in tempi antichi, tritati con il coltello, mentre più recentemente questo lavoro si faceva con la macchinetta tritacarne, prima a manovella e poi elettrica. La vergara prendeva alcuni pezzetti di grasso e magro e li cuoceva in una padellina per poi distribuirli ai bambini più piccoli che così, facendo il primo assaggio, davano il via alla festa.
L’insaccatura – Per la pasta delle salsicce la vergara pretendeva che fosse fina, fina; con il tritacarne chiedeva che fosse passata due volte perché così un pezzetto di salsiccia, quando veniva spalmato sul pane, poteva rendere di più. L‘insaccatura era una cosa delicata ed era eseguita da un esperto. La budella, nella quale era messa la carne tritata, doveva, con l’uso corretto della mano, essere riempita totalmente evitando, appunto con la stretta del palmo, che ci restasse dentro dell’aria che avrebbe sicuramente fatto rovinare l’insaccato. Per le salsicce e i ciauscoli la pasta era la stessa ma diverso era il formato. Le prime erano insaccate in budelle più picco le e legate più corte mentre gli altri erano più grossi e più lunghi. A una parte della pasta, tritata, veniva aggiunto il fegato del maiale e così si avevano salsicce e salami di fegato. Appena insaccati i salami erano a vista uguali, solo più tardi quelli di fegato diventavano più scuri, motivo per cui la vergara a questi ultimi legava un filo di lana colorata che li identificava, senza dubbio, come salami di fegato. Lo stesso, con filo di altro colore, avveniva con i cotechini. Di solito i salami di fegato erano mangiati stagionati e quasi sempre anche le salsicce seguivano tale sorte; c’era però chi le mangiava anche fresche. I salami lardellati avevano una pasta più consistente, con meno grasso ed era arricchita dai piccoli tocchetti di grasso e magro. Poi si facevano, con la carne, tritata e lessata, i cotechini e la coppa. I primi erano insaccati come i salami. La coppa era messa in un sacchetto, posta su di un piano e su essa era messo un tagliere con sopra una damigianetta piena d’acqua il cui peso era necessario per far uscire dalla coppa il liquido in eccesso. Per gli insaccati, tutti, salami e salsicce, c’erano due trattamenti particolari. Prima venivano tutti bucherellati con “lu piccarellu”, poi appesi a paletti, sorretti da due scale a libretto, e lasciati per ventiquattr’ore vicino al camino per farli sudare, quindi venivano trasferiti in una stanza ben arieggiata.
La conservazione – Ecco perché la pista si faceva a fine dicembre primi gennaio: in tal modo la carne, col freddo, si fermava e si manteneva. I prosciutti e le lonze che non sono ancora arrotolate, si ponevano su una stuoia di canne legate con i rami di salice così da ottenere un po’ di spazio fra le canne per consentire alla carne di respirare ed erano messi sotto sale per il tempo necessario ad asciugarsi. Poi le lonze le pancette erano arrotolate e accuratamente legate e tutta la “pista” veniva appesa in una cantina fresca e asciutta per la stagionatura. Per appenderli erano usate delle corde lungo le quali, però, potevano scendere i topi per rosicchiare lonze e prosciutti e allora i nostri bravi vergari, istruiti da lunga esperienza degli avi, prendevano dei vecchi piatti, li foravano al centro e poi, prima di attaccare la pista, facevano un nodo a metà della corda e sopra ci mettevano il piatto. In tal modo il piatto era completamente mobile e se un topo fosse sceso lungo la corda sarebbe arrivato al piatto che, oscillando per il peso lo avrebbe fatto cadere a terra. Geniale no?
L’origine del prosciutto cotto – Ora qui voglio svelare un arcano. I nostri nonni seguivano, mese dopo mese l’asciugarsi e il maturarsi del prosciutto e se vedevano che, per qualche motivo, il procedimento non procedeva correttamente, a significare che il prosciutto non si sarebbe mantenuto per un anno, alla cottura del pane quando il forno scendeva di temperatura lo infornavano e lo facevano diventare prosciutto cotto. Solo in caso di necessità, per salvarlo, veniva cotto. Poi il “miracolo” pubblicitario lo ha fatto diventare più prezioso e importante di quello crudo. Un’altra curiosità. Il prosciutto, per mantenersi, doveva essere asciugato completamente dal sale ed è perciò che si chiama prosciutto che è la forma breve di “proprio asciutto” e solo quello salato è il vero Prosciutto mentre quello dolce è un altro miracolo della pubblicità o, forse, dei conservanti.
Ora vediamo come era usata la pista – Le prime a essere cotte erano le carni lasciate fresche come, a esempio costine o pezzetti di grasso e magro che erano usati per le grigliate; poi le salsicce bianche, spalmate sul pane o come condimento per la polenta o per arricchire altri piatti ma l’uso era sempre ridotto allo stretto necessario. Una salsiccia era usata, con altri ingredienti, soprattutto erbe e salsa di pomodoro, per fare il sugo per cinque persone. E ancora la salciccia veniva messa al centro della polenta che era stesa sulla “spianatora” (una tavola ) e, usando una paletta di legno, veniva divisa dalla vergara in tanti spicchi quanti erano i commensali e colui che finiva prima la sua porzione aveva diritto a mangiare la salsiccia. Di solito quello che “vinceva” era il bambino più piccolo perché lui doveva crescere. Tale giochino, perché era tale, l’ho raccontato a mio cugino, il professor Sergio Angeletti che a quel tempo era “Il grillo parlante”, ossia il tuttologo, su Uno Mattina alla RAI. A lui piacque così tanto da volere che la scena fosse riprodotta da persone in costume durante una puntata della trasmissione. Dopo le salsicce chiare era la volta di quelle nere che si mangiavano solo seccate, erano pochissimi quelli che le volevano fresche. La coppa invece, appena pronta, era subito messa a tavola. I cotechini si cuocevano con le lenticchie ma c’erano che li mangiavano anche spalmati sul pane. Quindi era la volta dei salami duri e, per le sei mangiate fatte nei giorni della mietitura, e per alcune di quelle durante la trebbiatura, si iniziavano le lonze e il prosciutto che era quello dell’anno prima. Le pancette e lo strutto erano ingredienti usati sempre, nell’arco dell’anno, in cucina. Così la vergara, grazie al maiale, senza fare la spesa poteva mettere in tavola, due volte al giorno, del buon cibo per la famiglia anche nel periodo invernale. E allora… quando usiamo per disprezzare qualcosa o qualcuno, la frase “Porco… qua e là!” Forse non siamo giusti nei confronti di quell’animale che per i nostri nonni è stato veramente prezioso e che sulle nostre tavole è squisito, sia cotto che insaccato.
Cesare Angeletti “Cisirino”
25 ottobre 2022