A Montelupone stazionò anche un distaccamento di “soldiers” inglesi che ostentarono sempre una cert’aria di sussiegosa sufficienza da conquistatori. E si notò subito la differenza con i poveri diavoli polacchi che li avevano preceduti. Questo atteggiamento spocchioso non andò troppo a genio ai paesani, i quali non fecero niente per familiarizzare con gente che, ci si augurava, se ne andasse prima possibile. Ormai le faccende stavano volgendo per il meglio e non c’erano valide ragioni che giustificassero la presenza delle truppe di occupazione.
La propaganda fascista ci aveva abituati a considerare i figli della “perfida Albione” come nemici storici della nostra penisola. Sentivamo ancora nell’orecchio i lugubri quattro colpi di timpano che annunciavano le trasmissioni clandestine di Radio Londra. Persino nelle innocenti filastrocche dei giochi infantili si era insinuata la propaganda del ventennio che non esitava a insultare in mille maniere o a ridicolizzare il ministro “Ciurcillone” reo di essersi opposto alle mire espansionistiche dell’Asse.
Tra italiani e inglesi non era mai corso buon sangue. Anche in occasione di questa presenza britannica ci toccò di ospitare un maggiore che, da buon londinese, se ne stava molto sulle sue, salutava a malapena, magari con un semplice cenno del capo ed evitava di attaccar discorso con chiunque. Rapporti di buon vicinato, dunque, di cordiale indifferenza, senza slanci di amichevole collaborazione, ma anche senza atteggiamenti disfattistici.
Dopo tutto, vista la situazione di precarietà, era opportuno tenerseli buoni. Una delle poche cose che rallegrò non poco la cittadinanza e contribuì ad alleggerire l’atmosfera gelida fra le parti fu che, grazie ai buoni uffici del comandante del campo, si poté assistere alla proiezione di pellicole d’oltre oceano, mai viste in paese. Lo spazio per gli spettacoli era quello del chiostro interno della chiesa di San Francesco, da tempo pericolante e chiusa al culto. Ci portavamo sedie e banchetti da casa con un cartoccio di qualcosa da mettere sotto i denti (li semi de zucca, li lupì, un frutto de stagiò), avendo cura di prendere posto ancora alla luce del giorno.
Noi ragazzini finivamo per sederci per terra, a ridosso del lenzuolo che fungeva da schermo, dove scorrevano, come ectoplasmi evanescenti, tra gridolini di meraviglia e battute più o meno salaci, splendide misteriose donne in abiti favolosi, al centro di complicate coreografie di danza, mentre scendevano dall’alto di infinite scalinate.
Fu possibile vedere così i primi film-rivista come “Ziegfield Follies” o “Chattanooga Choochoo”. Si potevano ascoltare le coinvolgenti musiche di Cole Porter, di Gerswhin, interpretate dall’orchestra di Glenn Miller; di chissà quanti altri dai nomi astrusi e impronunciabili. Ridevamo delle guasconate del “Sergente York” interpretato da un fascinoso Gari Cùpere, che sconfiggeva l’eterno nemico, mediante un semplice tocco di saliva applicata col pollice sul mirino dello schioppo… Con un sol colpo cadevano stecchiti almeno quattro indiani! Restavamo terrorizzati di fronte alla maschera di Frankenstein, con i mostruosi tratti del viso dilatati e deformati dalla vicinanza della proiezione. Poi ci sbracavamo dalle risate nell’assistere alle avventure, assurde e straordinarie di Charlot, di Stallio e Ollio (che all’epoca venivano chiamati Cric e Croc), di Gianni e Pinotto.
Gli inglesi, pur nel loro distaccato isolamento, non perdevano occasione per dare saggio di impensate qualità atletiche, da veri… uomini d’acciaio. E così al mattino, di buonora, sull’acciottolato delle strette vie del paese, si sentiva risuonare il rumore cadenzato degli scarponi delle squadre di soldatini, obbligati a fare footing (si direbbe oggi) con qualunque tempo e temperatura. Il ritmo era scandito dalla voce rasposa di un sergente, cui facevano eco quelle stracche dei militari costretti ad accompagnarsi con un canto stonato a tempo di marcia.
Ricordo memorabili partite di basket giocate sulla piazza centrale del paese, con gli ufficiali in magliette grigioverdi e mutandoni alle ginocchia, contrapposti alla truppa più scalcinata e con gli equipaggiamenti più svariati… Rivedo volti sudati e gote rubizze, scontri violenti e conseguenti rovinose ammucchiate sul duro selciato, ginocchia sbucciate, in una sarabanda di corse, di fiati affannati e di solenni bevute di birra negli attimi di pausa.
Il maggiore, nostro ospite, tanto composto e distaccato in privato, era uno dei più accaniti e dava l’impressione che, durante i contrasti, facesse valere il suo grado nei confronti dei subalterni. Fatto sta che gli ufficiali, tra gli applausi e le risatine ironiche degli spettatori, uscivano sempre vittoriosi. Il maggiore, mi pare si chiamasse Archibald Hughes, ostentava un paio di rossi curatissimi baffoni che si asciugava spesso con il dorso della mano, più per darsi un contegno che non per effettiva necessità.
Conosceva un po’ di latino e si era documentato sulla storia dell’antica Roma. Una volta rimase di sasso quando chiese se conoscevamo le imprese e le conquiste di… Gialio Sisa e, sul momento, rispondemmo di non averlo mai sentito nominare. Non riuscendo a capacitarsi che fossimo così ignoranti, andava ripetendo: “Gialio Sisa… ma come? voi non conoscere Gialio Sisa?” ed era convinto che lo prendessimo in giro. “Voi me tirare gamba!” diceva, traducendo la corrispondente espressione idiomatica inglese che vuol significare appunto: sfottere, prendere per i fondelli… Ci volle un po’ per chiarire l’equivoco e alla fine, tra reciproci imbarazzi, si riuscì a decifrare che Gialio Sisa non era altri che Giulio Cesare, pronunciato secondo l’arrotata scansione anglosassone.
Goffredo Giachini
12 marzo 2022