Una volta il pullman di linea veniva definito “la coriéra” forse per assonanza e reminiscenza delle vecchie carrozze a cavalli che svolgevano il trasporto passeggeri e il servizio postale tra località limitrofe (ndr: i corrieri). In periodo di occupazione militare di queste “coriére” ne viaggiavano davvero poche, e mi riferisco in particolar modo alla linea interna della SAP: Macerata – Montelupone – Porto Potenza Picena.
L’arrivo del torpedone, di un uniforme colore blu notte, con i bagagli ammucchiati e legati alla “benemeglio”sul tetto del pesante automezzo recintato da una piccola balaustra metallica – detto l’imperiale – costituiva un avvenimento per il paese. Danilo l’autista (e più tardi Gigì de Montesanto) annunciavano la presenza del mezzo con poderosi e reiterati colpi di clacson, che rimbalzavano sopra i tetti frantumandosi in mille schegge di suono; i ragazzetti, appostati dietro l’angolo della porta del Cassero, solo accesso carrabile dalla cerchia delle mura, inseguivano correndo l’autobus, che andava a fermarsi sul lato della piazza principale, di fianco allo spaccio di Sali e Tabacchi della sôra Agusta.
In mezzo al polverone della frenata e il puzzo della nafta bruciata, Gigì – di solito incavolato – apriva sbraitando lo sportello anteriore e lasciava scendere i pochi passeggeri a bordo, accolti dagli astanti con grida di giubilo ed esclamazioni di meraviglia, quasi rientrassero da un’avventurosa spedizione polare: “‘Ndò sj ghjto ‘Nacleto, tanto pe’ non sapè li c… tua?” oppure: “Toh! Chi se’rvede… te pijesse un corbo!” – “’Ndò vai Terè, sì ‘mbriaca? Tu devi da calà’ a Montesanto… quisto adé Montelupò!” Poi l’autista, sempre blaterando, arrampicatosi sul tetto della corriera da una scaletta posteriore, provvedeva alla distribuzione dei bagagli. Da sotto i passeggeri indicavano i pacchi, le valigie o gli involti di loro proprietà.
Tra la merce c’era sempre uno scatolone di medicinali che le zie della farmacia si facevano spedire dal grossista di Macerata, giorno per giorno, in base alla richiesta della clientela. Perché conservare prodotti con il rischio che andassero in malora? Nell’angusto locale non c’era posto sufficiente per tenerli in deposito. Quindi, per ottenere un cachet, bastava chiederlo prima della chiusura della farmacia, per averlo nel primo pomeriggio del giorno successivo. Sempre che perdurasse il mal di capo! Per i purganti, c’era comunque una riserva pronta cassa…
Finite le scuole elementari, frequentate – come accennavo – solo in parte a Montelupone, mi ero iscritto al primo anno della Scuola Media che una volta aveva sede a Macerata, evitando le forche caudine dei cosiddetti “esami di ammissione” che, in periodo bellico, erano stati momentaneamente soppressi. Iniziammo io e papà uno stressante e avventuroso andirivieni tra il paese e Macerata, con il pullman, quando c’era; con i mezzi più disparati, quando il servizio pubblico dava forfait senza il minimo preavviso. E allora si approfittava di un camion, proprietà del meccanico Lisà de Pellanera, che andava in città a procurarsi i pezzi necessari al suo mestiere, un glorioso Fiat 18 Bi-Elle con le ruote di gomma piena, residuato della guerra 1915/18 tuttora funzionante.
O talvolta anche con un carro agricolo a quattro ruote (la cosiddetta “cacciatora”) trainata dalla cavalla di Battì de lo Trebbio, commerciante e procacciatore di derrate alimentari, sempre un po’ sfuggente, dietro una risata ambigua e sanguigna. Forse Battì faceva il mercato nero, ma non ebbi mai a indagare su certi comportamenti. Raramente, stagione permettendo, si coprivano i 16 chilometri del percorso, accidentato e ricco di saliscendi, addirittura in bicicletta; io seduto in canna, e il sôr Peppino che pedalava con lena. I tratti più duri si facevano a piedi, spingendo a turno la bici.
Poi il sôr Peppino, durante gli anni di “epurazione” per i suoi trascorsi fascisti, riuscì a trovare un lavoro di contabilità in una ditta di prodotti per l’agricoltura e preferì stabilirsi in città in una modesta pensione; se ne partiva da Montelupone il lunedì mattina, con i mezzi che la provvidenza gli forniva, e rientrava il sabato pomeriggio, giusto in tempo per offrire la sua collaborazione di violinista nell’orchestra “Frenesini” di cui mi pare di aver parlato altrove.
Una mattinata di settembre, per intercessione del colonnello ospite della nostra famiglia, ottenni un passaggio su un grosso Dodge, facente parte di una autocolonna con a bordo un contingente di soldati polacchi, di cui non conoscevo la destinazione ma che dovevano transitare per Macerata, forse per prender su altri commilitoni. Nell’ampio cassone posteriore furono caricati gli zaini e i sacconi impermeabili dei soldati, poi robuste braccia spinsero dentro il sottoscritto; infine salirono i giovani militari, chiassosi e spensierati.
Mezzo paese assisteva all’operazione, nonostante fossimo di primo mattino, e io, al momento della partenza, fui salutato come un eroe destinato a chissà quali avventure di guerra. Mi sentivo lusingato e importante! A mezza strada la colonna degli automezzi, per precise disposizioni dall’alto o per motivi precauzionali, o proprio per aver sbagliato percorso, deviò dal consueto tragitto che conoscevo a memoria e andò a inerpicarsi per melmosi e contorti itinerari di campagna. A nulla valsero le mie proteste e, soprattutto, le indicazioni che andavo fornendo. Però… nessuno mi stava ad ascoltare.
Il poderoso Dodge, procedeva ansando e traballando in maniera a dir poco preoccupante finché, nell’ennesima curva, questa volta a gomito e più maligna delle altre, ebbe un sussulto e cominciò a ribaltarsi a causa dello smottamento del terreno, cedevole perché intriso d’acqua, con la pesantezza di un pachiderma ferito. Ma non di schianto. Andò giù lentamente chinandosi sulla sua sinistra, tanto lento che alcune delle reclute ebbero persino il tempo di saltar fuori dal cassone. Le conseguenze, ritengo, sarebbero state ben più drammatiche se una folta siepe e il provvidenziale tronco di una robusta quercia non avessero rallentato il movimento del grosso camion. Mentre era in atto questo movimento rotatorio, io ebbi la netta sensazione di ciò che stava accadendo: ero finito, d’un tratto, in posizione prona, al buio, la fronte premuta contro uno dei tubi metallici dell’intelaiatura del copertone del traino. I sacchi, con gli effetti personali e i duri elmetti dei soldati, mi erano crollati addosso, con lenta progressione, man a mano che il mezzo si andava inclinando, impedendomi ogni movimento. Cominciai a chiamare aiuto, invocando a gran voce… mia madre.
Nella conseguente confusione, potevano anche essersi dimenticati dell’ospite civile che avevano a bordo. Invece, subito dopo, percepii con sollievo che mi stavano liberando dagli scomodi fardelli di ordinanza; ripresi fiato e coraggio e, una volta fuori, accettai di buon grado le premure del comandante il convoglio, il quale, borbottando in un italiano zoppicante, mi faceva animo e mi poneva dinanzi agli occhi offuscati dalle lacrime, una enorme toast quadrato di pane candido come la neve, con lardo (o forse margarina) e cipolle, oltre a una fumante tazza di tè.
Solo allora mi accorsi di aver sempre tenuto ben stretto in mano un cartoccio di carta paglia con sei uova fresche, raccomandate da mamma Gigetta per il consumo settimanale. Lasciai il sacchetto rimasto miracolosamente indenne, un attimo soltanto, per afferrare il prezioso pane e companatico, che mi veniva offerto dall’ufficiale. Questi poi mi riaccompagnò a Montelupone a bordo di una jeep. Così, ingloriosamente, feci ritorno a casa e, per un paio di giorni, dovetti saltare le lezioni. Unica conseguenza visibile dell’avventura un grosso livido sopra l’occhio destro… e in fondo al cuore il pensiero, il timore che forse, nella concitazione, si fossero scordati dell’ospite caricato all’ultimo momento.
Goffredo Giachini
12 febbraio 2022