Giochi innocenti – Mi torna alla mente un chiassoso banchetto, allestito nella sala della nostra casa gentilizia, con una quarantina di commensali. Forse fu in occasione della mia prima cresima e comunione, officiata nella cappellina della Madonna di Loreto. Per la occasione mamma Gigetta riesumò arredi e cristalleria, già incartati, confezionati e pressati in apposite casse e bauli, custoditi negli anfratti della cantine. Ci fu gran lavoro per tutti, in famiglia, specie per la Persè e per Stanislao, i quali facevano a gara a spolverare il mobilio, a risciacquare piatti e bicchieri, a lucidare l’argenteria, ad approntare la tavola; per la prima volta in vita mia assaggiai lo spumante e mi toccò scappare a nascondermi nel gabinetto in preda a problemi di stomaco. Finché i mezzi blindati e i pochi carrarmati fecero sosta in paese, noi ragazzi avevamo escogitato un modo inusitato per dare sfogo alla incontenibile carica ludica di solito legata a quella felice parentesi esistenziale che si definisce adolescenza. Felice o perlomeno spensierata, nella maggioranza dei casi. Tutto era adatto al gioco, dal filo d’erba, che, opportunamente piegato e portato alle labbra, diventava uno zufolo melodioso, alla creta umida (la marda) da plasmare in mille modi, al pezzo di fil di ferro che, debitamente sagomato, era, di volta in volta, ruota motrice, coperchio, cerchio, “riparella”, improvvisata cintura dei calzoni, fermacapelli (la fermezza) ecc. Bastava sapersi ingegnare. Come dimenticare le interminabili partite a “lo re” consistenti nel cogliere con un pezzo di mattone edilizio altri mattoni ritti a otto/dieci metri di distanza. Vinceva chi riusciva ad abbattere i mattoni degli avversari. Poi c’era il salto alla cavallina, con esibizione di abilità atletica e le formule magiche, ripetute a raffica (Uno: monta la luna / Due: sarda il bue / Tre: sarda la fija de lo re / Quattro: dajie de tacco ecc.). Così dopo l’armistizio, una volta cessato il fuoco di sbarramento che i due tank polacchi avevano scatenato dalla collina del Cassero in direzione della prospiciente altura di San Nicolò, ci facevamo regalare dagli artiglieri carristi i vuoti di cartone catramato di un coloraccio sporco, che avevano contenuto i micidiali proiettili dei cannoncini.
Il tiro… perfetto – Con tali aggeggi attanagliati dalle ginocchia e sfruttando il cilindro interno a mo’ di stantuffo, ingaggiavamo accanite gare di sparo… in alto, cercando di scagliare verso il cielo – con la pressione interna dell’aria – i tappi dei contenitori stessi. Come bersaglio centrale, avevamo scelto la medioevale Torre campanaria della piazza annessa al Palazzetto del Podestà. In un tardo pomeriggio, uno degli archibugieri più abili della cricca (lo fijo dè Battì) riuscì a piazzare il cappellotto nero sul bordo superiore dell’orologio che caratterizza e nobilita la torre. Le sfere segnavano le diciotto. Il coperchio di cartone, con esatta parabola balistica, dopo aver rimbalzato sul cornicione di travertino, nel ricadere, andò a conficcarsi, con precisione millimetrica, sulla punta acuminata della lancetta dei minuti posizionata in perfetta verticale. Ci fu un generale “ohhhh!” di meraviglia e i testimoni del gioco, ragazzi, occasionali passanti, militari e oziosi di turno, rimasero con il naso all’insù; finché il proietto – divenuto pacifico – non precipitò definitivamente a terra nell’attimo in cui la soneria meccanica non scandì le cupe battute delle ore sei e del susseguente quarto d’ora. L’applauso degli astanti proruppe spontaneo e vigoroso.
Scampato pericolo – Montelupone ebbe a subire due incursioni aeree a opera dell’aviazione tedesca, con relativo lancio di bombe. Una prima volta si trattò di semplici “spezzoni” uno dei quali andò a schiantarsi con fragore sull’aia di un contadino – mi pare si chiamasse Cacarì secondo la comune accezione – la cui casa era a un chilometro circa fuori dalle mura del paese; ci fu una strage di pollame, di conigli e di un maiale, destinato anzitempo a finire in salami e salsicce… Appena cessato l’allarme “verbale” ci precipitammo tutti a controllare l’effetto catastrofico dell’esplosione. C’era dappertutto un odore di carne arrosto che andava a coprire quello ben più sinistro della polvere da sparo. Alla fine mancò qualche pennuto nel bilancio dei danni fatto dal “vergaro” oltre ovviamente al suino, ma nessuno ebbe a recriminare. In un secondo intervento dell’aviazione germanica ci fu un nutrito lancio di proiettili i quali, prima di toccare il suolo, esplodevano a mezz’aria con forte deflagrazione. Mi pare si chiamassero “shrapnel” e provocavano danni più con le schegge che non con l’urto massiccio contro il suolo. Per grazia di Dio non si ebbero vittime umane, ma il panico fu indescrivibile, poiché in paese non era mai stata installata una sirena d’allarme e tutto avveniva alla voce o ci si accorgeva dell’arrivo degli aerei soltanto quand’erano sopra le nostre teste. Il parentado di casa Giachini – all’incirca una trentina di persone, tra nonne, zie, zii e cugini vari – si radunò nelle cantine del palazzetto del centro storico dove abitava la mia famiglia. A ogni botto lo spostamento d’aria faceva sbatacchiare rumorosamente i portelloni di pesante legno posti a protezione delle feritoie a livello stradale, usate per la immissione delle uve a tempo della vendemmia. Come contraccolpo si levava dal gruppo delle zie una cantilena lamentosa, fatta di giaculatorie e pater/ave/gloria, in perfetta alternanza cronologica. Botto fragoroso, litania fervorosa. Noi ragazzi, con la consueta incoscienza, correvamo felici all’interno delle cantine e delle sottostanti grotte, alla scoperta di insenature e cunicoli così pieni di mistero e fascinose meraviglie.
Effetti scenografici dei bombardamenti – Uno dei maggiori “divertimenti” per la cittadinanza, era quello di assistere, dalla terrazza panoramica del Pincio, ai bombardamenti notturni lungo il litorale adriatico, quando i paesi dell’immediato entroterra – arroccati sui colli tra Montelupone e la fascia costiera – venivano sinistramente illuminati dai bagliori degli scoppi o dalle traiettorie dei proiettili traccianti che andavano a estinguersi, come meteoriti, sul mare, con mirabolanti effetti scenografici. Sul fondale del cielo si disegnavano allora, a tratti, i profili delle colline e delle cuspidi dei campanili: uno spettacolo pirotecnico di rara efficacia e intensità questo dei boati, dei lapilli di luce e delle girandole, non facilmente godibile neppure in tempo di serena pace. Qualcuno, senza rendersi conto, azzardava anche un timido applauso, all’apparire, sullo schermo nero, di un getto di scintille iridate più fitto degli altri. Mio padre, armeggiando con i pulsantini del cronografo Omega da polso, coglieva ogni occasione per insegnarmi a calcolare la distanza del punto dell’esplosione, determinando il tempo intercorrente tra i ventagli luminosi e il fragore degli scoppi; un po’ come si fa tra lampo e tuono. Una sera, comunque, dovemmo scappare come lepri, allorché sulle nostre teste sibilò con maligno miagolio, un proiettile vagante che andò a schiantarsi non so dove. Con le mani intrecciate sopra i capelli come elmetto protettivo, ci precipitammo verso casa, improvvisamente e dolorosamente consci di un subdolo peri colo che pensavamo superato.
Goffredo Giachini
4 gennaio 2022