Overland, l’incredibile avventura – VIII puntata – in viaggio da Pechino a Singapore

Sono stato a Pechino per la prima volta nel 1988. Sono passati undici anni, la città è tutto un fervore di opere, cantieri ovunque, edifici e strade che sorgono come funghi. Partiamo in direzione Sud, verso Nanchino, percorrendo la costa orientale.

La nuova autostrada corre lungo il Canale Imperiale scavato nei secoli che serve per il trasporto delle merci ma anche abitazione per i marinai e le loro famiglie. Scavalchiamo il Fiume Giallo che dopo poco sbocca in mare. Proseguiamo verso Nanchino in mezzo a estese risaie. Alterniamo tratti di strada normale, ove l’autostrada non è ancora terminata, con tratti di autostrada. Case ai bordi delle strade. A Xuzhou scavalchiamo il Canale Imperiale, sempre pieno di barche. Siamo imbottigliati in un enorme cantiere di decine e decine di chilometri, sul quale svetta uno stupendo ponte stradale e ferroviario e finalmente siamo a Nanchino. Siamo accolti dal personale Iveco che qui ha uno stabilimento per la costruzione di Daily e siamo alloggiati all’Hilton. La Cina sta proprio cambiando.

Ci dirigiamo verso Canton, l’altro grande polo industriale di questo vasto paese. Il paesaggio non cambia, una grande pianura alluvionale vaste risaie, canali, fiumi, chiatte e treni di chiatte sui canali con il traffico regolato da cartelli come sulle strade. E cantieri ovunque. Si incontrano le prime piantagioni di tè. Abbiamo con noi delle guide che purtroppo ogni tanto commettono qualche errore, del resto comprensibile date le innumerevoli deviazioni per via dei cantieri. Prima di Canton vediamo anche alcune coltivazioni di banane. A Canton siamo a 3500 chilometri da Pechino, tre volte la lunghezza dell’Italia.

Bufali d’acqua

Da Canton il paesaggio cambia, è più mosso, si alternano industrie e campi coltivati. Altri 800 chilometri e siamo alla frontiera con il Vietnam. Penso che non esista persona di più di cinque, sei anni, esclusi forse gli Indios della più interna foresta amazzonica, che non abbia sentito parlare del Vietnam. Un conflitto durato anni le cui vicende hanno riempito le pagine di tutti i giornali del mondo. Il terreno è nuovamente alluvionale, estese risaie, bufali d’acqua e i contadini con il tipico cappello di paglia a cono. Corriamo su una bella strada lungo la costa, punteggiata da isolotti calcarei e villaggi turistici ove si parla inglese e si paga in dollari.

Risaia

Giungiamo ad Hanoi, la vecchia capitale del Nord, nugolo di biciclette e ciclomotori, i camion sono quasi tutti di fabbricazione russa. Anche la lingua vietnamita è monosillabica ma i caratteri sono quelli latini e non gli ideogrammi cinesi.  Nelle campagne l’agricoltura è quasi tutta a mano, quasi assente la meccanizzazione. A fianco al riso grandi vasche per la pescicultura. Ci dirigiamo verso il Laos che percorreremo per un migliaio di chilometri lungo il fiume Mecong, il grande fiume della regione.

In frontiera siamo accolti da un gruppo folcloristico locale per il tradizionale benvenuto, poi in serata una grande festa in nostro onore. Il paesaggio non cambia, molte case e capanne sono costruite su palafitte per evitare l’umidità. Le capanne hanno tutte le pareti di stuoia per agevolare la ventilazione. Vientiane, la capitale, ha il tipico aspetto di una città coloniale dell’ottocento. Siamo nella stagione dei Monsoni che non ci fa mancare ogni tanto un bell’acquazzone.

A Hue rientriamo in Vietnam, passiamo il vecchio confine tra Nord e Sud ancora costellato di fortini e ci affacciamo sulla baia di Danang, più volte citata nei resoconti del conflitto. Veramente stupenda! Proseguiamo verso Sud percorrendo la strada principale, la N° 1. Tanta gente ai lati della strada tanto da dare l’impressione di attraversare una unica sterminata città, Si vedono ancora molti residuati bellici, e si cominciano a vedere le prime industrie. Saigon o meglio Ho Ci Min City. Totalmente diversa da Hanoi, moderna, industrializzata. Sempre nugoli di bici e ciclomotori ma già auto. I bambini vanno a scuola in divisa e le ragazze si coprono per evitare l’abbronzatura per il sole. È il mito della pelle bianca.

Il mito della pelle bianca

Oggi gli Stati Uniti sono il principale partner commerciale del Vietnam. Sorge spontanea una domanda: “Che senso hanno le guerre?” Nel frattempo continuano i contatti con le autorità birmane, sia in Italia che nelle sedi diplomatiche dei paesi che stiamo attraversando, per ottenere il visto di ingresso in Birmania, l’unico che ancora ci manca per poter raggiungere l’India.

Da Saigon passiamo il Mecong con un traghetto ed entriamo in Cambogia dopo una lunga attesa in frontiera. Le frontiere sono la nostra croce, ma quello che non si capisce è come in alcune bastino pochi minuti per passare, uno sguardo alle carte e via, mentre in altre occorrano ore. Ci dirigiamo verso Siem Reap per visitare Angkor Wat. Il paese reca ancora evidenti i segni della ideologia dei Khmer rossi che volevano riportare il paese a una economia rurale locale autosufficiente. Ovunque ponti distrutti, sostituiti alla meglio con travi in legno o deviazioni nei greti, edifici rasi al suolo. Ideologia poco nota ai più che è costata al paese tre milioni di morti, pari alla metà di quelli della più nota Shoah od Olocausto degli ebrei. Oggi per fortuna l’ideologia dei Khmer rossi è stata spazzata via con il contributo di tutti i paesi della regione e della comunità internazionale.

Traffici di confine

Angkor Wat è il più vasto edificio religioso al mondo, un tempio induista costruito dalla dinastia Khmer nel 1100. Dalla Cambogia passiamo in Tailandia. La differenza tra l’economia dei due paesi è immediata. Un notevole traffico di piccoli commerci in frontiera per far passare di tutto. Dopo i disastri della Cambogia la Tailandia sembra un sogno: strade belle, veloci, autostrade, negozi, industrie moderne. Bangkok, la capitale ha un aspetto del tutto occidentale con grattacieli e palazzi recenti. Tanti turisti in giro e simpatiche le donne che vendono cibi cucinati sulle barche nei canali.

Gianni Carnevale e il ponte sul fiume Kwai

Una puntata per visitare uno dei ponti più famosi al mondo, quello sul fiume Kwai (che in realtà sono due ponti), costruito durante l’ultima guerra dai prigionieri dei giapponesi per una linea ferroviaria per attaccare l’India. Lavoro costato migliaia e migliaia di vite. La visita ai vicini cimiteri fa riflettere. Ma dalla morte rinasce sempre la vita. Oggi la zona è un brulicare di turisti, barconi, ristoranti, negozi.

Cimitero dei caduti per il ponte

Nulla da fare, nonostante ogni sforzo non ci viene concesso il visto per attraversare la Birmania. Non ci resta che partire per Singapore e passare poi in India via mare con una nave. Nella campagna intorno alla strada palme di cocco, banane, alberi della gomma, molto richiesta la gomma naturale in campo sanitario, acquazzoni monsonici quotidiani e pochi animali. Siamo nella civiltà motorizzata. Entriamo in Malaysia e ci fermiamo a Kuala Lumpur la capitale. Grattacieli, benessere diffuso, ordine e pulizia. Arriviamo a Singapore. Tutta la zona ha ancora il tipico aspetto coloniale, con casette unifamiliari con giardino e box. Anche Singapore, nonostante i nuovi grattacieli, le nuove costruzioni, conserva il suo aspetto di quando era una delle città più importanti dell’impero inglese.

Ci fermiamo alcuni giorni in attesa della nave per l’India. Ne approfittiamo per fare un po’ di manutenzione ai camion poi finalmente li carichiamo sulla nave. Alcuni tornano in Italia per il cambio autisti, qualcuno viaggia sulla nave ma non tutti, il cargo ha poche cabine e non ci è concesso dormire nelle cuccette sui camion, altri vanno a Madras, porto di destinazione, in aereo. Ora ci attende l’India o meglio il subcontinente indiano, uno dei paesi più affascinanti ma sconcertanti del mondo e il vasto mondo islamico dai molti risvolti. 

Gianni Carnevale

Donna cucina il cibo in barca

23 dicembre 2021

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