La vita è un viaggio, anzi è un insieme di tante partenze dove non occorre portarsi dietro le valigie, perché ogni viaggiatore, se saprà cercare, troverà in sé tutto quello che gli occorrerà. Potrei anche immaginare il viaggio come un grande bosco, con gli alberi che s’innalzano ora tutti frondosi, ora incerti e nodosi, secondo la loro natura e il contesto che li circonda.
Il primo viaggio – A sei anni non vedevo l’ora di partire con “quell’orribile mostro” di ferro nero, come diceva il Carducci, mostro che da una parte m’incuteva paura e dall’altra mi affascinava. Il mio primo viaggio lo feci a dieci anni, la meta era Roma, per me la realizzazione di un sogno, per i miei invece la triste risposta alle sofferenze di mia madre. I viaggi spensierati e indimenticabili, dovrebbero essere i primi, quelli scolastici: partenze festose con i compagni, colmi di risate.
Il viaggio con le suore – Invece quello che feci nelle Medie fu decisamente triste. Durante il percorso si parlò poco e piano; ogni tanto una voce querula e lamentosa, interrompeva le nostre piccole confidenze con preghiere e canti. La nostra vecchia Preside troneggiava tra le attenzioni premurose delle suore, sempre agitate sul da farsi. Comunque Assisi e il lago Trasimeno, mete della mia gita scolastica, mi colpirono molto, soprattutto i dipinti di Giotto, così graziosi per la loro semplicità e il lago, che più di un lago mi sembrò un piccolo mare, fuggito per nascondersi e meditare nel verde delle colline umbre. Considerai allora che non era tanto il viaggio che ci doveva interessare ma la meta per cui si andava. Eppure, in quell’età ancora tenera, partire per la prima volta insieme con le compagne, era per me una grande festa.
Oggi i ragazzi viaggiano di più – Oggi considero che i nostri ragazzi siano molto più disinvolti rispetto a quelli dei miei tempi (anche troppo) perché hanno avuto più occasioni. Già da piccoli hanno viaggiato molto con i loro genitori e seppure al tempo non hanno compreso quello che vedevano, hanno assimilato il senso del viaggio, del cambiamento, le novità che si possono ricevere da ambienti e persone diverse, per cui a diciotto anni (anche prima) si affacciano alla vita con meno timore e quando spunterà quel giorno importante nel quale dovranno dimostrare la loro capacità andando a studiare o a lavorare fuori città o addirittura all’estero, proveranno meno disagi ma non per questo saranno immuni dalla solitudine, che prenderà comunque e sempre in un paese straniero.
“La meta è partire” – Questa volta si è veramente soli e nonostante i nuovi amici e la facilità per la lingua, la famiglia mancherà terribilmente e sarà proprio questo il momento di tirar fuori il vero spirito di adattamento e tutte le forze per una possibile convivenza. Poi ci si abitua, ci si abitua a tutto e il fatto di essere giovani è complice e si resta ancora un poco, rimandando di volta in volta il ritorno. Ma quel treno sarà sempre più lontano, forse non arriverà più. Così scrivevano i miei nonni oltre Oceano con le lacrime agli occhi. “La meta è partire”, così diceva il poeta Ungaretti. È necessario quindi uscire dal proprio ambiente per fare nuove scoperte. È una gioia incontenibile specie se si è in compagnia degli amici; è una esplosione di libertà sfrenata e, al tempo stesso, la manifestazione della propria personalità, spesso repressa. Ricordo che solo in vacanza con le mie amiche osavo mettere il rossetto e fumare la sospirata sigaretta. Viaggiando oggi queste emozioni non sono più sentite come un tempo ma “uscire” è sempre una parentesi dolce e necessaria.
Il viaggio di nozze – “A vent’anni, anche meno, già con il fidanzato ufficiale accanto – mi raccontava nonna – si pensava al viaggio di nozze come un grande traguardo”. Il corredo era pronto e il vestito bianco (veramente meritevole) attendeva speranzoso nell’armadio, mancava solo quel sì, sussurrato davanti al Sacerdote. Eppure le ragazze prendevano tempo, erano timorose per quel viaggio che avrebbe cambiato decisamente la loro vita. Oggi che diresti, nonna cara di fronte a una realtà completamente sconvolta, dove i tuoi sacri e inviolabili valori sono stati dimenticati, calpestati; dove ogni gita in macchina può essere un viaggio di nozze.
La “fuitina” – Una collega mi raccontava ridendo che in Sicilia, la sua terra, c’era ancora la “fuitina”, la piccola fuga, sistema che usavano spesso gl’innamorati, quando erano seriamente contrastati dalle famiglie… “Alla fuga malandrina – continuava la mia amica cambiando voce e abbassando gli occhi – seguiva sempre il matrimonio riparatore”.
Il bimbo malato – Una uscita, pure lontanissima, si può fare anche senza viaggiare: talvolta il desiderio è tale che la fantasia, unita alla bontà dell’uomo, supplisce la lontananza. Ricordo infatti di aver letto, tempo fa su un giornale, che un bambino americano, innamorato di Pinocchio, voleva conoscere la nostra Penisola ma… come avrebbe potuto essendo gravemente malato? L’Italia intera si commosse al caso e con doni e moltissime cartoline illustrate, andò da lui, recandogli oltre le foto di tante belle città anche le espressioni più affettuose per una pronta guarigione.
Il viaggio degli animali – Pure gli animali viaggiano, per nuovi cieli, per acque più pulite o per verdi pascoli. Chi non ricorda l’immagine viva e intensa che ci ha lasciato il grande poeta abruzzese nei “Pastori”: ecco scendere le pecore con il tintinnìo dei sonagli fra il grande fragore del mare. Gli insetti, anche piccolissimi, fanno i loro viaggi. Una volta vicino le Gole dell’Infernaccio, nei Sibillini, rimasi incantata a osservare una fila di formichine che, a loro modo, viaggiavano cambiando casa. La fila era lunga ma procedeva rapida, ogni formica portava la sua valigia, chi un seme, chi una piccolissima bacca, quelle più importanti andavano avanti tenendo in alto come dei chicchi di riso bianco: erano le larve, le future formichine.
Viaggiare nei ricordi – Ma viaggiare non significa solo andare fisicamente in un altro posto, lo si può fare senza alcun movimento, fermi, magari incantati sulle sponde del proprio letto. Mi accede spesso quando una piccola cosa, un nonnulla, schiude causalmente l’onda gravida dei ricordi. Allora quel mondo infinito si apre in un baleno, i frammenti del passato si cercano, si ricongiungono ed ecco… quel dolce momento… quel volto perduto… Poi torna inesorabilmente la cruda realtà, il viaggio della memoria svanisce in un lungo e profondo sospiro. Tante volte mi chiedo cosa provò il poeta Leopardi quando tolse lo sguardo dall’Infinito, da quella scintilla che l’Eterno ci ha regalato nel primo istante del nostro viaggio.
Il viaggio del raggio di sole – Nella mia camera, spesso, d’inverno osservo un raggio di sole che mi viene a trovare: entra festoso per fare il suo giro di luce. È il mio compagno silenzioso. Prima indora le tende, poi si posa alto sull’armadio, quindi scende per accarezzare sul comò la foto dei miei. Sulla porta sembra attardarsi, come aspettare un poco, infine si colora di rosso e si spegne lentamente sul Crocefisso, come in una lunga e accorata preghiera. Oggi, non viaggio più, l’età e i suoi fastidi, m’impediscono questa grande evasione, ma se non posso fuggire dalla realtà fisicamente, lo faccio ugualmente con il pensiero, nel ricordo più amato per una grande città: Firenze.
Firenze – È il mio luogo preferito, dove la storia, l’arte e l’armonia si respirano ampiamente con l’odore del legno antico e della pittura, dove i miei ricordi riprendono vita e si colorano di tenere dolcezze. A quindici anni vi ero stata solo di passaggio, ma di fronte alla grandiosa bellezza del Duomo, giurai a me stessa che ci sarei ritornata. Si, certo, e mantenni la promessa per più di cinquanta volte. A spingermi nella seducente città toscana, fu soprattutto mio marito Renzo che vi era cresciuto fino alla soglia dell’adolescenza, poi venne un trasferimento, ormai dimenticato, lo strappò improvvisamente dal capoluogo e dai suoi amici. Il dolore fu lungo e la nostalgia e il rimpianto trasparivano spesso dalle sue parole. Iniziammo così, insieme, il primo viaggio a Firenze, quello di Nozze.
Viaggiare dentro Firenze – Poi negli anni che seguirono, ci furono ritorni e ritorni sempre affamati e attratti dalla magia della terra Toscana in modo particolare dalla regina fra le sue città. Le continue visite ai musei, alle mostre, alle pinacoteche, ci arricchirono culturalmente e nello stesso tempo ci permettevano di accarezzare sempre e sempre i luoghi che avevano allietato la sua infanzia: il Lungarno Cellini, dove aveva abitato con la sua famiglia, San Niccolò, il quartiere degli amici, il Piazzale Michelangelo, l’amico dei giochi e, soprattutto, la sua prima Scuola, la Demidoff. Non solo nei mesi feriali la città del Giglio era d’obbligo, ma qualche volta eravamo presenti anche in quelli lavorativi con varie giustificazioni, come visite specialistiche o addirittura per premi letterali. Viaggi, piccole fughe che alimentarono sempre più, per anni, l’attaccamento per Firenze e per gli amici fiorentini.
L’implacabile male – Poi… le forze cominciarono ad abbandonare mio marito, una volta salì con grande fatica sul solito treno. Quello che più mi spaventava era la sua mente che si avviava lentamente all’oblio. Iniziò implacabile il periodo triste della sofferenza; ogni giorno era colmo di nuovi tormenti che solo la forza del nostro affetto riusciva a superare. Un pomeriggio di primavera, lo sorpresi piangere davanti al televisore, aveva visto Firenze e mi accennava, come poteva, la sua sofferenza. Lo abbracciai commossa e glielo promisi: sì, ci saremmo tornati a qualunque sacrificio, ma bisognava far presto, perché tutte le sue condizioni fisiche cominciarono a peggiorare, in modo particolare anche la mente perdeva la sua luce.
Inizia l’ultimo viaggio – Quella mattina limpida di settembre arrivò il taxi e partimmo contenti ma anche preoccupati, considerando le difficoltà che avremmo incontrato. Conoscevamo bene il percorso, tanto amato ma ora, per noi, era diventato un ostacolo da superare. Comunque arrivammo. Questa volta la città stessa ci venne incontro gioiosa, rumorosa con il suo splendore e il suo magico incanto, sempre pronta a festeggiare. Andammo subito al “nostro” albergo in via Cavour per riposare.
Sensazioni… – I giorni successivi furono intensi, facemmo con il taxi corse su corse cercando di rivivere e riassumere più ricordi possibili. Mio marito sembrava riprendersi, poi tornarono le crisi, terribili perché non riusciva più a comunicare verbalmente quello che provava, ma capivo dal suo sguardo che si sforzava per non precipitare nel vuoto mentale. Era nella sua adorata città e non poteva annegare nell’oblio. Spesso, riconoscendo un portone, un giardino, viveva sensazioni particolari, che non potevo sapere, né condividere ma sentivo con lui la certezza cruda e muta dal profondo del cuore che quello era l’ultimo, l’ultimo viaggio.
“Firenze addio” – Il taxi ci venne a riprendere; pioveva quel mattino, come se pure la città si commuovesse per il nostro distacco. Sistemammo i pochi bagagli e prendemmo silenziosi i nostri posti. Percorrendo il corso, subito Palazzo Medici Riccardi, ci salutò sulla destra, poi Santa Maria del Fiore che come una mamma ci abbracciò forte con il tocco delle sue campane, grave e appassionato; le voltammo le spalle, mio marito si girò e la seguì ancora con lo sguardo poi, appena scomparsa, sussurrò solo due parole: “Firenze, addio”.
Mariella Marsiglia
10 novembre 2021