La satira di un immortale personaggio, il prode Anselmo… e i prodi Anselmo italiani

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Giovanni Visconti Venosta, detto anche Gino, nasce il 4 settembre 1831 a  Milano e vi  muore il 1º ottobre 1906. Fu patriota e scrittore. La sua fama non è derivata da azioni eroiche compiute in quel turbolento periodo storico: era troppo giovane per partecipare alla lotta. La sua prosa non evidenzia pregi particolari. A renderlo eterno fu, essenzialmente, un breve poemetto “La partenza del crociato per la Palestina”, più noto come “Il Prode Anselmo”, dato alle stampe nel 1856. Chiamarlo “poemetto eroicomico” sembra eccessivo: sono solo 68 versi. Non sono un letterato ma credo che  Giovanni Visconti Venosta debba essere definito un poeta satirico (castigat ridendo mores). Come, poi, più in grande e con più finezza farà Trilussa. Nel ruolo del Prode Anselmo si  può immaginare chi non mantiene le promesse: dallo studente di lungo corso, al dipendente pubblico assenteista, al debitore incallito, al deputato che promette la semplificazione delle burocrazie, ai miliardi di Euro pronti a venire in Italia e che dopo un anno non si spostano da Bruxelles: “Passa un giorno, passa l’altro, mai non torna il nostro Anselmo…”.

Il valore satirico del “Prode Anselmo” fu compreso dagli universitari che, tra le altre canzoni goliardiche, lo recitavano (anche musicato). Va la nostra gratitudine ai goliardi delle varie università se possiamo sorridere sulle nostre vicissitudini.

Nazzareno Graziosi

La partenza del crociato per la Palestina di Giovanni Visconti Venosta

Il prode Anselmo

“Passa un giorno, passa l’altro / mai non torna il nostro Anselmo, / perché egli era molto scaltro / andò in guerra e mise l’elmo… / mise l’elmo sulla testa / per non farsi troppo mal / e partì, la lancia in resta, / a cavallo d’un caval. / La sua bella che abbracciollo / gli dié un bacio e disse: Va! / E gli pose ad armacollo / la fiaschetta del mistrà. / Poi, donatogli un anello / sacro pegno di sua fé, / gli metteva nel fardello / fin le pèzze per i pié. / Fu alle nove di mattina / che l’Anselmo uscìa bel bel, / per andar in Palestina / a conquidere l’Avel (S. Sepolcro). / Né per vie ferrate andava / come oggi col vapor, / a quei tempi si ferrava / non la via ma il viaggiator. / La cravatta in fèr battuto / e in ottone avéa il gilè, / ei viaggiava, è ver, seduto / ma il cavallo andava a pié. / Da quel dì non fé che andare… / andar sempre, andare, andar… / quando a pié d’un casolare / vide un lago, ed era il mar! / Sospettollo… e impensierito / saviamente si fermò, / poi chinossi e con un dito / a buon conto l’assaggiò. / Come fu sul bastimento, / ben gli venne il mal di mar, / ma l’Anselmo in un momento / mise fuori il desinar. / La città di Costantino / nello scorgerlo tremò, / brandir volle il bicchierino / ma il Corano lo vietò. / Il Sultano in tal frangente / mandò il palo ad aguzzar, / ma l’Anselmo previdente / fin le brache avéa d’acciar (lusso per pochi italiani). / Mezze lune, jatagan (spada persiana) / odalische, minareti, / già imballati avéa il Sultan, / quando presso ai Salamini / sete ria incominciò / e l’Anselmo, coi più fini, / prese l’elmo e a bere andò. / Ma nell’elmo, il crederete? / c’era in fondo un forellin, / e in tre dì morì di sete / senza accorgersi il tapin. / Passa un giorno, passa l’altro, / mai non torna il guerrier; / perché egli era molto scaltro / andò in guerra col cimier. / Col cimiero sulla testa, / ma nel fondo non guardò: / e così gli avvenne questa, / che mai più non ritornò.

21 agosto 2021

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