Un termine del dialetto maceratese un tempo comune oggi caduto in disuso: jumèlla

In televisione c’è un gioco nel quale si invitano i concorrenti a trovare il significato di parole inusuali e strane e allora anche io lo voglio fare e la parola che propongo è “Jumèlla”. Per gli ottantenni come me non è poi così difficile scoprirne il significato perché era usata, soprattutto in campagna, regolarmente, e indica il contenitore che si può fare unendo le mani a formare una conca. Era usata, fatta con le mani degli uomini, più grandi rispetto a quelle delle donne e più o meno uguali tra loro, anche come unità di misura.

Legato a questa parola, è esistito anche un personaggio che appariva sempre nel periodo del raccolto del grano. Era una donna anziana, rimasta sola e povera, che dopo la mietitura e dopo che i covoni erano stati portati sull’aia, chiedeva al vergaro di poter raccogliere le spighe cadute nel campo. Poi, il giorno della trebbiatura, si presentava a chiedere “la jumella” ossia sperava che il capofamiglia, d’accordo col fattore, le desse un po’ di grano. Se il raccolto fosse stato buono  “la jumella” sarebbe stata abbondante se fosse stato così così un po’ più modesta ma anche se fosse stato scarso “la jumella” non si rifiutava mai perché  i nostri contadini credevano che ciò  portasse male.

Ho anche un altro ricordo legato alla parola. Mio padre, appena diplomato, fu chiamato a fare il quarto fattore di una famiglia di Conti che avevano una grande proprietà terriera. Il più anziano dei tre fattori doveva andare in pensione e lui era assunto per completare il numero, facendo il giusto tirocinio prima che l’altro andasse via.

Dopo due o tre giorni che aveva preso servizio la vergara che era a capo del gruppo dei lavoratori, uomini e donne, al servizio dei conti, verso le undici del mattino, lo chiamò dicendogli che costoro avevano come razione giornaliera di pasta una “jumella”; gli disse quanti erano e chiese che lui, con le sue mani, avesse fatto le dosi. Papà raccontava di esser stato molto lusingato dalla scelta. Poi, dopo qualche giorno, entrato in confidenza con la vergara le chiese: “Perché hai scelto me per un compito così importante? Ci sono i tre fattori più anziani!”

Lei, con un ampio sorriso da contadina scaltra, rispose: “Perché  vù  fattó c’éte le mà più grosse!” (Perché voi, fattore, avete le mani più grandi). Papà ci rimase un po’ male ma, da quel giorno, ripensando al sorriso caldo e simpatico della vergara, fece in modo che “la jumella” fosse stata, per loro, sempre un po’ più abbondante.

Cesare Angeletti (Cisirino)

23 giugno 2021

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