Uno dei canti popolari ai quali la nostra gente più volentieri si abbandonava, nel passato, era quello cosiddetto a batóccu (a batacchio), in cui due voci, maschili o femminili, oppure anche miste, si alternavano (ndr: come i rintocchi delle campane) con legamenti vocali prolungati e in una specie di botta e risposta. È il caso di rifarsi a questo tipico canto della tradizione popolare marchigiana prima di raccontare un episodio, in parte canoro, accaduto presso le grandi fornaci di laterizi di Montolmo tanti anni fa.
I proprietari della fornace – Proprietari di quelle fornaci, che per il prelievo dell’argilla di cui necessitavano hanno disgraziatamente mangiato metà del bel colle su cui sorge la cinquecentesca mole di Santa Maria dei Monti, volgarmente dette degli Zoccolanti, erano i fratelli Bravetti i quali, oltre che grandi proprietari terrieri, erano grossi commercianti e imprenditori; come commercianti esercitavano in ampio raggio la compravendita delle sementi e come imprenditori avevano attivato, tra l’altro, la fornace di cui sopra.
Sòr Arfònzo – Della direzione di questa era, dei fratelli, incaricato il dottor Alfonso, per tutti sòr Arfònzo, personaggio di grande rilievo poiché fu anche amministratore presso vari enti comunali, e per un certo periodo persino podestà. Sòr Arfònzo, data la sua elevata posizione sociale, la sconfinata stima di sé, l’autoritarismo vigente all’epoca, l’alta statura, il portamento severo e l’abbigliamento ricercato, era indubbiamente figura che incuteva, più che rispetto, sacrosanta soggezione.
Il canto a batocco dell’operaio – E li fornacià’ (gli operai della fornace) inutile dire che filavano diritto e lo temevano, anche per il fatto che esercitava su di essi una sorveglianza pressoché continua. E va da sé che essere presi in castagna da lui significava il licenziamento in tronco. Si narra che un giorno, un certo operaio, notata l’assenza di sòr Arfònzo dall’ufficio, e certo che si fosse dovuto allontanare per recarsi in città, si nascose dietro una graticcia di mattoni posti ad asciugare e, postosi seduto, si arrotolò una spagnolétta (sigaretta), se l’accese e cominciò a fumarsela beato. E mentre sfumacchiava, a un certo punto, si mise a cantare a mezza voce:
Te pare che ffatìgo, e non fatigo,
e ‘mméce me la fumo e mme ne rrido;
me faccio ‘na fumata in sanda pace,
e un górbu a li Vraìtti e cchj li fece!
(Ti sembra che lavoro, e non lavoro / e invece me la fumo e me ne rido; mi faccio una fumata in santa pace / e un accidente ai Bravetti e a chi li fece!)
Il canto a batocco del signor Alfonso – Ma appena ebbe terminato questa sua cantatina da sfaticato che, dall’angolo della graticciata, si affacciò sòr Arfònzo, cioè il capintesta dei Bravetti che, col suo vocione da basso profondo, canterellò di rimando:
Te pare che tte pago, e non te pago;
de te, vruttu pezzènde, me ne frégo;
rpìja lu fagottéllu e vatte a rpónne;
ccuscì quistu Vraìttu te respónne.
(Ti sembra che ti pago, e non ti pago; / di te, brutto pezzente, me ne frego; / riprendi il fagottello, e vatti a riporre; / così questo Bravetti ti risponde.)
E fu l’operaio stesso che dopo il licenziamento raccontò in giro questo suo… incidente sul lavoro.
Claudio Principi
13 aprile 2021