In questo racconto l’autrice ci fa rivivere l’atmosfera dei giorni del bombardamento di Macerata per aver vissuto da bambina la tragica vicenda, che avvenne anche in prossimità di via IV Novembre, a quel tempo via della Vetreria, dove lei abitava e giocava…
Il babbo prigioniero – Una lettera giunse a rituffare nella costernazione mia madre; il babbo, che ultimamente si trovava in Jugoslavia a combattere, in seguito ai risvolti della guerra che assumeva sempre più vaste dimensioni e complicazioni d’ogni sorta, era stato fatto prigioniero e deportati in Germania dai nazisti. Nel campo di concentramento a Gheisling, vicino Stoccarda, coi patimenti della fame e sotto la morsa del freddo, era costretto ai lavori forzati per ripristinare le ferrovie devastate dai bombardamenti.
Le patate cotte sulla stufa – Lungo la campagna riusciva talvolta a rubare due patate che nascondeva nelle tasche, poi in camerata le cuoceva a fette sui ferri roventi di una stufa a carbone e le condivideva con i suoi camerati. Ma quelle fette di patate non bastavano certo a placare i morsi della fame. Le vicende che riguardavano i nostri soldati le sapevamo dai bollettini di guerra, poiché le sue lettere non giungevano e quando non erano requisite erano censurate con inchiostro nero. Degli orrendi crimini che si stavano commettendo contro gli ebrei ancora non se ne veniva a conoscenza. Ma anche da noi tutto andava di male in peggio.
A Macerata il reciproco aiuto tra donne – Ricordo l’avvilente rassegnazione a questo stato di cose e il prodigarsi delle donne per aiutarsi l’un l’altra a crescere e sfamare i propri figli. Scambi di favori, di biancheria, di pentole, di arnesi, tutto per migliorare la ristretta vita quotidiana, perché ormai ogni famiglia era stata costretta a privarsi anche del necessario. I sussidi che si ricevevano non erano certo sufficienti per far fronte alle reali necessità. A tavola, ormai, era un giorno pancotto e l’indomani “zuppa e pan bagnato”.
I carriarmati per corso Cavour – Le strade pullulavano di pattuglie tedesche e dai discorsi dei grandi capivo che ora bisognava temerle. Lo sferragliare assordante dei carriarmati, che da corso Cavour, la via principale del borgo, giungeva in cortile, ci terrorizzava perché le nostre mamme ci avevano proibito di salire in cima alla strada per vederli passare, ciò voleva dire che bisognava tenersi alla larga dal pericolo.
La vecchia Piccina – Era stato fatto uno scavo al limite del cortile, dove spesso vedevo la vecchia Piccina allargare le gambe per fare pipì: ella aveva le gambe stanche e non poteva risalire in casa ogni volta. A noi monelli questo modo di una donna di far pipì faceva ridere, ma gli adulti ci assicuravano che ella indossava i mutandoni con uno spacco e quindi non si sporcavano.
Il nascondiglio – In questo fossato, sul limite dell’orto di Agostino, avevo scoperto un grande tubo seminterrato dove potevo introdurmi carponi. E proprio quando udivo avvicinarsi il fragore dei carri armati, come la tartaruga che si ritira nel suo carapace, correvo impaurita a infilarmici e attendevo il loro allontanarsi. Solo allora il mio cuore rallentava i battiti accelerati e solo allora avvertivo alle narici quel sentore puzzolente di urina a cui, prima, per il timore, non avevo badato. A nonno Agostino non importava che la vecchia Piccina urinasse al limite del suo orto: “Ingrassa la terra, abbiamo bisogno dell’insalata” – diceva bonariamente, col solito modo di vedere il lato positivo delle cose.
La mamma va a fare la spesa – Ora mia madre andava da sola per il pane e per il latte da ritirare con la tessera e io restavo ad aspettarla mentre il mio cuore si macerava di ansia, perché temevo che i tedeschi potessero farle del male. La mia fantasia di bambina intuiva, creava e ingigantiva pericoli di cui non sapevo l’entità, come di un mostro del quale si parla tanto ma non si conosce il volto. L’attendevo all’imbocco del cortile, sotto l’arco del ponte, e scrutavo la strada allungando il collo. Solo quando la vedevo giungere in cima alla via mi rasserenavo; senza indugio le correvo incontro gioiosa e ritornavamo tenendoci per mano.
I tedeschi perquisiscono le case – “Tu resta in casa a guardare il fratellino – mi ammoniva la mamma – non devi temere, non può capitarmi nulla”. Voleva rassicurarmi ma i discorsi che udivo fare dai grandi mi terrorizzavano; le loro espressioni drammatiche nel raccontare gli eventi incutevano nel mio animo sensibile tante inquietudini. “Perquisiscono le case e fanno piazza pulita di tutto!” dicevano i vicini riuniti in capannelli.
Il rosario con la nonna – Vedevo la nonna recitare con fervore il rosario, di tanto in tanto s’interrompeva, sospirava, alzava gli occhi al cielo e intercalava le Ave Maria con invocazioni accorate: “Signore Iddio, abbi misericordia di noi! …Abbi pietà di coloro che sono in trincea e nei campi di battaglia!” Spesso mi faceva recitare una preghiera che mi avrebbe protetta da ogni pericolo. Mi sembrava molto buffa ma lei asseriva che gliela aveva insegnata sua nonna ed era molto efficace: “Gesù Cristo è mio Padre / la Madonna è mia Madre / San Giuseppe m’è compagno / l’Angelo Custode mi è fratello. / San Michele mi sta sopra / lo Spirito Santo nella mente / tutti i santi di qua e di là / l’anima mia s’ha da salvà’”.
Le buche “cassaforte” – Nel cortile furono scavate grandi buche dove le donne introdussero le secchie di zinco riempite della biancheria rimasta e degli ultimi oggetti che desideravano conservare. Anche queste cose i tedeschi avrebbero preso se le avessero trovate. Dopo aver ben tappato le secchie, le buche furono ricoperte di terriccio in maniera che non si vedesse alcun segno. L’operazione “scavo” veniva fatta di notte, quando noi bambini eravamo a letto.
Il gioco e i rimproveri – Ma qualcuno dei monelli aveva scoperto il segreto dei grandi e quel che noi bambini non si doveva sapere lo sapevamo tutti e fu argomento del gioco dell’indovinello. “Chi lo scopre per primo è Duce!” diceva Franco, il figlio di Righetta. “Io lo so, è in questo angolo dove prima c’era l’erba!” affermava Lauretta, la più scaltra. “E un altro è qui dove sono rimossi i mattoni!” assicurava Pia dei Battistini. Poi grattavamo a terra con palette di fortuna ma non scoprimmo mai nulla. Le nostre indagini le scoprivano invece le comari che si affacciavano al nostro vociare e allora erano urla che ci rimandavano mogi mogi alle rispettive case.
Pallì, il cane randagio – Un giorno ero sola in cortile e, all’insaputa di mia madre, avevo dato un pezzetto del mio pane a un cane randagio che capitava di tanto in tanto per rimediare qualcosa da mettere sotto i denti: noi bimbi lo avevamo chiamato Pallì, perché era piccolo e dietro ai nostri giochi correva come una pallina. Mentre lontano si udiva un rombo di aerei, si affacciò Gisa che da dietro i vetri aveva notato il mio sotterfugio e, facendomi trasalire, gridò: “Sei una incosciente, glielo dirò a tua madre che hai dato al cane il pane della tua colazione..!”
Il bombardamento! – Ma non finì di pronunciare la frase che un boato terribile squarciò l’aria, moltiplicato spaventosamente dall’eco del cortile: Era il bombardamento! Da ogni uscio provennero sull’istante urla e pianti; in un attimo il cortile fu invaso da una confusione terribile… quelle grida, quelle voci che sembravano impazzite, mi risuonano ancora in testa… Ogni madre, tenendo stretti a sé i propri figli, scappò sulla strada: tutti correvano nella stessa direzione. Mi sentii afferrata da mia madre che con l’altro braccio stringeva il mio fratellino e scappammo anche noi, insieme alla nonna, col fiato mozzo e il terrore nel cuore.
La galleria-rifugio – Ricordo di una donna del borgo che aveva appena partorito e fu trasportata, con il suo bambino, con un carretto traballante, avvolti entrambi in vecchie coperte. Trafelati, ci ritrovammo tutti in una galleria scavata appositamente nei pressi del Campo Boario, per la eventualità del bombardamento. Il pavimento di terra battuta era stato ricoperto di paglia e di vecchie coperte per poterci accovacciare ma eravamo così stretti che mancava il respiro.
Paura, caldo e cattivi odori – Presto l’aria divenne puzzolente, la paura a qualcuno aveva causato il rilassamento dell’intestino. Il caldo era asfissiante, insopportabile; se un uovo fosse caduto in terra si sarebbe cotto! Ed era buio pesto, non distinguevo nessuno, udivo le voci sommesse e tremanti di paura dei vecchi e delle donne che cercavano di consolare i loro fanciulli atterriti. Io mi ritrovai tra le braccia amorevoli della nonna mentre mia madre stringeva a sé il fratellino. Non so quanto tempo passò, a me sembrò interminabile. Credo che la nonna udisse i battiti accelerati del mio cuore pieno di paura; sentivo il suo alito caldo sulla fronte che in quel momento era così benefico, così confortevole!
Il bombardamento continua – Il rombare degli aeroplani continuava maledettamente a torturarci le orecchie e il cervello; altri boati si udirono, ma più lontano. Si seppe in seguito che una bomba era caduta sul ponte del cimitero e un’altra sullo stradone dell’ospedale uccidendo una donna. Se fosse caduta sui tetti dello stabile sarebbe stata una strage! Altre distruzioni erano avvenute in più punti della città. Una strage avvenne in via della Nana; il bombardamento era mirato alla Caserma Corridoni, ma lo spostamento d’aria fece sì che fossero colpite molte abitazioni del Borgo Cairoli, case povere fatte di terra che crollarono drasticamente su gente inerme.
Il ritorno alle case, alla vita – Quando ogni rombare si fu allontanato e la sirena aveva avvertito del passato pericolo, tornammo all’esterno. Mai la luce del giorno mi sembrò più abbagliante e bella! All’uscita ogni donna, ogni vecchio, ogni fanciullo era abbracciato a un altro, silenziosi e spossati dalla tensione; la puerpera e il neonato erano una sola cosa tra un groviglio di coperte nel carretto. La gente si faceva intorno per consolare la mamma che aveva dovuto prolungare il suo travaglio pure dopo aver partorito un così bel bambino e per fortuna non c’erano state conseguenze negative. Si tornò tutti alle proprie case e, come un brulicare di formiche, si condivise le pietanze disponibili, trasportando da una famiglia all’altra pentole e piatti, per una sorta d’incoraggiamento di ritorno alla vita.
Anna Zanconi
18 novembre 2020