Per anni, fine ‘800, primi del ‘900, era stata la titolare dell’unico spaccio di Sali e Tabacchi, sito sulla piazza principale di Montelupone; ulteriore polo di attrazione – come si direbbe con linguaggio attuale – oltre quello della Farmacia, dove confluiva una clientela eterogenea e pettegola.
La Sòra Agusta – La “Sòra Agusta” come una protagonista del teatro dei pupi, emergeva improvvisa da dietro il banco di vendita a distribuire, sciolte o in pacchetti, le Nazionali, le Tre Stelle, le Serraglio, le Africa: tipi di sigarette che andavano per la maggiore. O i lunghi e bitorzoluti Toscani, sigaracci di produzione autarchica, puzzolenti e sgraziati i quali, dietro richiesta del cliente, venivano anche spezzati in due tronconi con un aggeggio a forma di ghigliottina in miniatura dando origine a “Lu menzu toscanu” così definito per distinguerlo da “lu toscanellu” di misura inferiore, di più agevole accezione e per le tasche e per i polmoni dell’acquirente.
Il negozio – Ambìte rarità, specie per i ragazzini: “li furminandi controvento” che, a dispetto delle correnti d’aria, aumentavano il fuoco, piuttosto che spegnersi. Su di un lato del bancone facevano bella mostra di sé alcuni barattoloni in vetro dal coperchio metallico, allineati come granatieri in parata, contenenti caramelle dagli incarti multicolori, pastiglie di zucchero d’orzo fatte in casa, lunghe cannelli di“rigolizia”, cioccolatini assortiti, delizie per i piccini che raggiungendo a malapena il bordo del massiccio ripiano, stringevano fra le dita della manina il soldo necessario. A volte l’acquisto era indirizzato alle palline di creta colorata, o, a seconda delle possibilità finanziarie, a quelle più ricercate di vetro screziato.
Un supermercato ante litteram – Lo spaccio, supermercato ante litteram, disponeva, oltre che dei normali generi di monopolio, di articoli di passamaneria, di bottoni, di filati e di abbigliamento di uso spicciolo. E poi c’erano i giornali, magari quelli del giorno prima, in attesa che Danilo, l’autista della “corriera” di linea della SAP, durante la “fermata” in piazza prevista ogni giorno fra le 13 e le 13:30, scaricasse il pacco di quelli di giornata. Una copia restava di solito in dotazione della bottega e ricordo ancora la voluttà e l’intimo raccoglimento di certi pomeriggi trascorsi a leggere, a lume di candela, l’Illustrazione Italiana o la Domenica del Corriere legate con uno spago per annate e ammonticchiate nella cantina retrostante al negozio, fino su al soffitto annerito dai fumi.
La scucchia de Sòra Agusta – Nonna Augusta la rivedo, minuta, i capelli raccolti a chignon alti sulla nuca, il visetto raggrinzito con occhialetti a pince-nez, rigorosamente di disegno rotondo, su cui spiccava il mento (la “scucchia de Sòra Agusta” sfottevano le malelingue) ornato da un ragguardevole neo peloso sulla punta. Molti scherzavano sull’estrema miopia della Sòra Agusta facilmente deducibile dall’uso inveterato delle lenti affumicate. E siccome riconosceva la fisionomia degli avventori o delle amiche in genere solamente quando li aveva a tiro, cioè a circa mezzo metro di distanza dalla punta del naso, la nonna aveva assunto come intercalare:”Me paréi e non me paréi…” con il che si garantiva da figuracce possibili e nel contempo, come suol dirsi, salvava la faccia in considerazione di probabili illazioni della gente sull’educazione di base, che mai deve difettare in chi gestisce un pubblico esercizio.
Il ragioniere di bassa statura – Nel periodo bellico (1943/44) era venuta in paese in veste di “sfollata” una famiglia maceratese (in tutto sette persone) il cui capo era un ragioniere (G. Zeta) un omarino, che raggiungeva a malapena il metro e trenta di altezza. Una “menomazione” che non gli aveva impedito di sposare un’avvenente signora dal viso dolcissimo, dalla quale aveva avuto ben cinque figli, tutti normalissimi e di bell’aspetto, specie tre di sesso femminile. Non per nulla era voce comune tra il popolino e non solo, che l’altezza degli uomini fosse inversamente proporzionale alle capacità di procreazione. Un pomeriggio dunque il ragionier Gi. Zeta capita nello spaccio di Sali e Tabacchi con una cartamoneta nella mano protesa verso l’alto bordo del bancone. La Sòra Agusta compare di scatto da dietro la trincea e intuendo più che vedere la presenza di qualcuno dall’altra parte, prima di ogni richiesta, esordisce con un emblematico: “Che voli, còcco, quanti sòrdi ci-hai ?”, equivocando su età e aspetto del cliente, che ancora non aveva aperto bocca! E già teneva in mano una manciata di biglie di vetro colorate, che corrispondevano alla richiesta media dei piccoli acquirenti. La storia fece presto il giro del paese e qualcuno ci ride su ancora oggi.
Il recapito telefonico – Viveva con noi, ma, come tutte le persone anziane, preferiva starsene da sola con una propria camera da letto e un gabinetto e, quando per ristrettezze economiche, fu costretta a vendere la licenza commerciale e la tabaccheria, si mise a gestire il recapito telefonico del paese, dal momento che – diceva – non era capace di starsene con le mani in mano. L’ufficio consisteva in una stanzetta a fianco della tabaccheria stessa, una volta comunicante con il negozio. I vetri della piccola porta di ingresso sulla strada erano resi sporchi da una patina indelebile di umidità mista a polvere, che impediva la visuale all’interno. Di sera si mettevano gli sportelloni di legno. Scarso il mobilio di questo pseudo-ufficio pubblico. Un tavolino sgangherato e relativa sedia impagliata, un modello antidiluviano di telefono a muro con la cornetta e una cabina dalla struttura di un legno marroncino che a malapena si chiudeva alle orecchie indiscrete. Completava l’arredo una vecchia poltroncina spelacchiata per i clienti in attesa della “comunicazione”…
La cucina fumosa – Sul retro una minuscola cucina fumosa, quasi interamente occupata dai classici fornelli in muratura, sui quali la Sora Agusta accendeva a fatica la carbonella, ravvivando il fuoco con la ventola di penne di galline. Un piccolo piano di appoggio e una credenzina a vetri (una volta di color verde pisello) completavano la stanza. L’ambiente era illuminato da una nuda lampadina senza paralume che pendeva dal soffitto, il più delle volte fulminata. Interveniva allora il sòr Peppino, l’uomo dalle mani d’oro, attento alle esigenze della mammà, che si premurava di sostituire la lampada rotta o di rimediare a qualche piccolo cortocircuito che non era rado si verificasse e per l’umidità dei muri e per il vapore delle bolliture. Una scala a chiocciola di pesante ghisa nera, di vago sapore liberty, collegava la stanza del “telefono” con le camere da letto al piano superiore.
Gli scherzi dispettosi alla nonna – I miei rapporti con la vecchina non erano dei più idilliaci e spesso, acciambellato su uno dei gradini più alti della scala in ferro, combinavo piccole marachelle, mi ingegnavo a creare casini; mangiucchiando, le tiravo palline di pane, le bucce di un arancio, o i semi di cocomero. Insomma facevo del tutto per indispettire la nonna – con quel gusto sadico di cui i ragazzini di otto anni o giù di lì sono spesso dotati – approfittando malignamente della miopia e della sordità della vecchina che andavano aggravandosi giorno dopo giorno.
Centralinista e fattorino – Tant’è che dovevo improvvisarmi centralinista, avendo la nonna ignorato il più delle volte il trillo insistente della soneria dell’antidiluviano apparecchio telefonico, o perché mezzo assopita o perché impegnata a trafficare nel minuscolo ambiente della cucina. Non rifiutavo, per contro, l’incarico di fattorino, quando dovevo avventurarmi per le vie del paese a recapitare l’invito a presentarsi al… centralino per rispondere a una interurbana prenotata a tempo. Così funzionavano le cose a quell’epoca! Non c’erano molte occasioni per dimostrare reciproco affetto.
Così morì la Sòra Agusta – Certo è che non ho conservato della nonna un ricordo edificante. O meglio, non ho riferimenti precisi, né di gesti di tenerezza, né di lacrime. Solo fotogrammi di una assoluta indifferenza che sfumano in una nebbia lattiginosa, come una istantanea sbiadita. La Sòra Agusta morì nel 1944, passando serenamente, nella notte, dal riposo alla veglia eterna. Per meglio dormire si era tolta la dentiera e gli occhialetti rotondi. Si era sciolta pure lo chignon. Spiccava sul fondo immacolato del cuscino ricamato, il nero bitorzolo peloso del mento al centro di un viso pieno di rughe, incartapecorito e marmorizzato in una specie di sorrisetto di una perenne serenità. Fu il primo “morto” che mi fecero vedere. Baciai con un certo ribrezzo, la pelle ghiaccia, dissi velocemente un “requiemeterna” e scappai a giocare a palla nel salone adiacente con gli amichetti di occasione…
Goffredo Giachini
2 ottobre 2020