La giovane Diletta Grassetti, archeologa medievista specializzata in archeologia dell’architettura all’Università di Padova, rispondendo alle domande, illustra alcuni aspetti di questa disciplina non semplici da comprendere da soli.
Quali sono i concetti di chi vorrebbe ricostruire templi e palazzi dell’antichità crollati per eventi naturali come i terremoti e altro? – “Ricostruire qualcosa che non è più è senz’altro una prassi molto spinosa, soprattutto per chi, come noi archeologi, fa della cultura materiale e dei prodotti dell’attività umana una chiave di lettura per la storia, soprattutto quella quotidiana e sociale. Così, per rispondere a questa domanda bisogna innanzitutto distinguere due casi particolari che riguardano i terremoti, o qualsiasi altra catastrofe naturale, e i beni culturali, ovvero: l’avvento di una catastrofe improvvisa e isolata, evento inaspettato e distruttivo oppure la presenza di un rischio ambientale elevato e quindi crisi che si ripetono con una certa frequenza e forza. Nel primo caso si crea una condizione che può essere paragonata, per quanto riguarda i danni causati al patrimonio culturale, a una guerra; una volta affrontati i problemi riguardanti vite umane, beni di prima necessità e abitazioni, si passa subito a discutere come salvare i luoghi identitari e i siti di particolare interesse. Così si è diffuso il famoso motto dov’era, com’era per cui si riteneva opportuno cancellare i segni della tragica sciagura, rimettendo tutto al suo posto come se nulla fosse successo; questo tipo di approccio, piuttosto antiquato e antiquario, vede il patrimonio mobile e immobile come un ‘oggetto’ che una volta rotto si può ricomprare. Ancor di più questo atteggiamento viene messo in atto proprio quando i beni danneggiati sono templi o opere dell’antichità poiché la necessità di ricostruire pedissequamente è esacerbata del culto del bello e dell’antico. È senz’altro un modo pericoloso di vedere il nostro patrimonio, specialmente quando interessa territori, come il nostro, in cui il terremoto si presenta con una certa frequenza; chiese, palazzi, fortificazioni e rocche inevitabilmente debbono aver subito danni e ricostruzioni secolo dopo secolo, terremoto dopo terremoto, e i ‘tratti antichi’ sono andati a mischiarsi e confondersi con le ricostruzioni ‘in stile’ di epoche più recenti, e in certi casi è oramai impossibile distinguerle. In casi particolari, legati a opere e manufatti di particolare pregio e rilievo, le ricostruzioni sono state eseguite riutilizzando gli stessi frammenti originali e lasciando vuoti gli spazi non restituibili con elementi originali.
Celebre è senz’altro il caso della Basilica superiore di Assisi che ha visto il ricollocamento degli affreschi, sgretolati in seguito al sisma del ’97, attraverso il recupero di tutti i minuscoli frammenti che, grazie all’incredibile operato dei restauratori, sono stati raccolti da terra e reinseriti nelle volte per ricreare le raffigurazioni dei Santi e degli Evangelisti, originariamente a opera di Cimabue e di un giovane Giotto. La questione è che, dal punto di vista archeologico, tutti i prodotti della vita e dell’azione umana hanno la stessa rilevanza, dalla ceramica da mensa del povero contadino al tempio antico, ma la ricostruzione, con il recupero dei materiali originali, è un’attività lunga e complessa che finora, purtroppo, è stata destinata a pochi straordinari casi, e non a tutto il patrimonio. Questa tecnica, che si chiama anastilosi, è stata a esempio utilizzata in seguito al terremoto in Friuli del ‘76 per ricostruire il Duomo di Venzone, le cui pietre cadute a terra sono state raccolte, numerate e rimesse, in successione, dov’erano. Quando invece si agisce ricostruendo ex novo, spesso neanche in maniera filologicamente corretta, reinventando materiali, tecniche e messe in opera di fatto si ha come risultato un vero e proprio falso storico”.
Oggi sta prevalendo il metodo di lasciare i resti a terra? – “Scegliere, quando non è possibile ricostruire per anastilosi, di lasciare i resti a terra è un atto di coraggio che dobbiamo alla storia. Certamente è una scelta che va spiegata e motivata dallo specialista, nel rispetto del pubblico e dei cittadini a cui i beni culturali appartengono. Anche questa prassi risulta complessa perché richiede una continua formazione e coinvolgimento dei cittadini, a cui è necessario chiarire i motivi per cui vengono prese determinate decisioni. Bisogna saper dimostrare alle comunità colpite che si può comunque creare valore intorno al patrimonio materiale, anche quando è seriamente danneggiato o non è più rappresentativo come era prima di un catastrofico evento. Il bene culturale è qualcosa che non è solo fatto di materialità o estetica, ma il suo valore risiede proprio in tutti quei simboli, quei significati, quei valori intangibili che l’umanità gli attribuisce”.
Cosa ci dice sulle ricostruzioni virtuali al computer? – “Le ricostruzioni digitali sono ormai fondamentali nello studio di siti archeologici, soprattutto proprio quando si ha a che fare col patrimonio architettonico; questa metodologia è utile, innanzitutto, per documentare e quindi testimoniare lo stato degli edifici prima che un evento catastrofico accada e prima che l’immobile venga danneggiato dal tempo. Per tale ragione una intensa attività di ricerca sul territorio, a opera di specialisti formati anche su nuove tecnologie e metodi innovativi, è fondamentale. Attraverso il rilevamento digitale è possibile, inoltre, studiare accuratamente i beni senza rischiare di danneggiarli o usurarli, come av viene a esempio per reperti mobili particolarmente fragili e delicati. Mi fa piacere citare il gran lavoro svolto dalla sezione archeologica dell’Università di Padova, in collaborazione con molti studiosi di altri ambiti, sul Flauto di Pan, reperto giunto a Padova da Tebtynis (Egitto) e risalente al VI sec. d. C., fatto con canne palustri legate da una corda e ricoperte di materiale composito. Si tratta di un oggetto estremamente fragile, impossibile da maneggiare, studiare e men che meno suonare. Grazie al progetto di ricerca Archaeology and Virtual Acoustics. A pan flute from ancient Egypt è stata costruita nel museo del dipartimento di Scienze archeologiche (dove io stessa ho studiato) e d’Arte del Palazzo liviano, dove il reperto originale è custodito, una postazione interattiva nella quale non solo il flauto è stato virtualmente ricostruito nella sua tridimensionalità ma è stato ricreato anche il suo suono ed è quindi possibile toccarlo e suonarlo.
Per quanto riguarda il patrimonio edilizio, il rischio di deterioramento è persino maggiore poiché non si compone di beni conservati all’interno di teche ma di opere immobili, utilizzate e rimaste all’aperto per secoli, sottoposte a ogni tipo d’intemperie o catastrofe. Per tale ragione è opportuno intervenire prima, restituendo delle rilevazioni digitali, soprattutto dove i rischi sono più elevati, come nel nostro territorio. Un altro aspetto importantissimo della ricostruzione virtuale è l’interdisciplinarietà, avvi-cinare le cosiddette scienze dure ai settori umanistici è fondamentale ed è uno dei principali presupposti per ricerche che siano innovative e guardino al futuro. È pertanto necessario che le ricerche vengano svolte da team variegati fatti di tanti specialisti in diversi ambiti, per dar vita a quanti più punti di vista possibili della stessa realtà”.
Quali sono gli uomini e le donne che hanno ricercato e scavato negli ultimi tre secoli da lei apprezzati? – “Per rispondere a questa domanda vorrei fare una piccola premessa: ho una formazione da archeologa medievista, e mi sono specializzata in archeologia dell’architettura, inoltre ritengo che la materia archeologica debba essere portata avanti non sola mente da una élite di specialisti ma da un numero il più grande possibile di persone, unite dalla volontà di approfondire e raggiungere una conoscenza più vicina al reale del passato. Perseguire questi obbiettivi significa anche ammettere i tanti errori dell’archeologia nei secoli scorsi, interpretazioni fittizie, falsi storici, interessi economici, idolatrie e ideologie politiche sono state parte integrante delle prime e più note forme dell’archeologia, dal colonialismo nei grandi siti in Africa, Grecia e Oriente, ai nazionalismi inneggianti ai fasti dell’Impero Romano, fino ad arrivare a occultismo e alle pseudo-archeologie. Per tali ragioni citerò coloro che hanno contribuito alla creazione dell’archeologia attuale, democratica, diversa e giusta secondo il mio punto di vista, quell’archeologia che non comprende grandi siti e nomi altisonanti e non è fatta da uomini e donne con il completo da safari, cappello fedora e pennellino.
Innanzitutto, Tiziano Mannoni (1928-2010) uno dei padri dell’archeologia medievale italiana e teorizzatore dell’archeologia come una disciplina ‘globale’, ovvero l’insieme di tutte le pratiche di ricerca poste in atto per lo studio complessivo delle testimonianze materiali del passato con la finalità di intercettare il maggior numero di tracce che la presenza umana lascia in un territorio. Ci sono studiosi di valore come Gian Pietro Brogiolo, con il quale ho avuto il piacere di scavare più volte nel corso dei miei anni di specializzazione, è un altro dei padri dell’archeologia medievale e non solo, numerose sono infatti le tematiche che ha introdotto nella ricerca archeologica, fra cui la partecipazione attiva delle comunità nei progetti e un approccio innovativo nello studio dell’architettura storica. Desidero inoltre ricordare due archeologhe e professoresse: Giovanna Bianchi e Alexandra Chavarria Arnau. La Bianchi è professore associato di Archeologia cristiana e medievale nell’Università di Siena ed è fautrice di importantissime ricerche nel panorama archeologico medievale toscano. La professoressa Chavarria, con cui ho avuto la fortuna di collaborare e che è stata anche relatrice della mia tesi di laurea, è professore associato presso l’Università di Padova nell’ambito dell’archeologia cristiana e medievale; negli ultimi anni, però, si sta ampiamente e proficuamente dedicando alla Public Archeology o Archeologia Pubblica, ovvero una metodologia di ricerca in ambito archeologico che promuove la partecipazione delle comunità nella ricerca e ha obbiettivi concreti legati alla sfera sociale ed economica, allo sviluppo, alla sostenibilità e alla inclusione di gruppi comunitari con problemi d’integrazione quali, ad esempio, minoranze linguistiche, immigrati o disabili”.
Quali spazi di lavoro agli archeologi nell’attuale mondo in crisi? – “Spazi ce ne saranno ma bisognerà sapersi mettere in gioco; ritengo che l’unico modo per poter lavorare in ambito archeologico in questo contesto di crisi, non solo economica ma anche ambientale e culturale, sia quello di dar vita a progetti e ricerche innovative che indaghino caratteristiche inedite e conseguenze della presenza umana sulla terra, in sinergia con le sfide dello sviluppo sostenibile”.
Ci sono nuove tecnologie meno invasive che aiuteranno a ritrovare siti archeologici oggi sconosciuti? – “Le prospezioni geofisiche sono la nuova frontiera dell’applicazione di metodologie scientifiche non invasive nel campo dei beni culturali, in particolare archeologici, perché permettono di ‘vedere’ attraverso alcuni strati di terra. Con questi sondaggi non vediamo oggetti sepolti, materiali o la presenza di strutture, ma registriamo con specifici apparecchi le proprietà fisiche del terreno; quando sono individuate delle ‘anomalie’ possono, se correttamente interpretate da specialisti del settore, corrispondere e segnalare la presenza di reperti nel sottosuolo”.
Dove le piacerebbe lavorare e condurre ricerche? – “Nonostante abbia deciso di condurre gli studi di specializzazione in un’altra regione, gran parte dei miei interessi di ricerca si concentrano sul territorio marchigiano. Lavorare nel mio territorio, in particolare nell’entroterra maceratese, è certamente fra gli obbiettivi di studio su cui mi concentrerò nei prossimi anni. Pensando all’eventuale possibilità di lavorare all’estero mi piacerebbe molto scavare o fare ricerca in Inghilterra, in particolare in Galles e Scozia”.
Eno Santecchia
19 settembre 2020