La storiografia paludata ha costretto a credere che, prima di Roma, l’Italia tutta era popolata da omuncoli grezzi, poveri, vaganti, senza linguaggio, senza scrittura, nudi o vestiti con una rozza pelle di pecora, dispersi in territori selvaggi; i più ricchi avevano la clava. A questa desolazione sfuggono solo i Sabini: con il loro “Ver Sacrum”1: in società con le corporazioni dei… “picchi” esportavano colonne di giovani nelle Marche e in altre regioni vicine. Se non si può dubitare che le migrazioni per carestie e pestilenze siano sempre esistite, si ha qualche difficoltà a credere che molti popoli abbiano origine in Sabina, regione di modeste dimensioni, “a punta di lancia”, come molti la descrivono. Gli storici antichi furono attivi quando Roma era già molto potente. In assenza di fonti storiche attendibili, hanno dovuto far riferimento a racconti, tradizioni e leggende. Nei loro volumi si percepisce, anche, l’inconscia sudditanza alla gloria dell’Urbe. La storiella del variopinto picchio (sacro a Marte) che guida un numero imprecisato di giovani all’occupazione di numerose regioni affascina il popolo, è facilmente comprensibile e fa ritenere per millenni, che le varie etnie italiche hanno sangue romano (o quasi). A onore del vero ci sono altre due versioni subordinate: secondo alcuni quei giovani sabini avrebbero seguito il totem del Picchio, secondo altri sarebbero stati guidati dal picchio. Non viene però riportato chi fosse il trasportatore e nemmeno l’immagine del totem. Il rito del “ver sacrum” ha assunto valore storico. Anzi, è ritenuto un dogma inconfutabile. Non è dato sapere da quale anno e per quanto tempo sia stato in vigore. Ammessa e non concessa la veridicità di quel “rito”, sorgono molti dubbi:
1) Come poteva la piccola Sabina, con evidente modesta popolazione di donne in età fertile, produrre tanti maschi da inviare in altre regioni?
2) Forse le donne Sabine avevano nel loro dna il gene dei parti plurimi? Ma in quei tempi la mortalità neonatale era molto frequente, l’ostetricia e la pediatria non potevano essere molto evolute: dobbiamo aspettare il 1980 quando all’ospedale di Bibbiena (AR) nacquero quattro maschi e due femmine: i “gemelli nazionali”.
3) Le statistiche delle popolazioni evidenziano che, in genere, il numero delle donne è superiore a quello degli uomini. Se i sabini avessero praticato il Ver Sacrum, per molto tempo, se ne dovrebbe dedurre che ogni anno, il numero dei maschi diminuiva di molte unità e il territorio doveva, in poco tempo, diventare un gineceo pieno di languide zitelle.
4) In conseguenza il “Ratto delle Sabine” non deve essere considerato una biasimevole operazione piratesca ma una “missione di riequilibrio sessuale” senza morti e feriti, senza scioperi e senza l’indignazione delle femministe. Le donne rapite non tentano la fuga e manco l’autolesionismo. Si schierano tra i loro fratelli e i loro mariti consigliando la calma. La guerra sarebbe stata un poco onorevole “cognaticidio”. E tutto finisce a tarallucci e vino.
Altre fonti
A – da Nicola Turchi – Enciclopedia Italiana (1935) – Era un voto pubblico (ver sacrum vovere1) che il magistrato, a nome del popolo romano2, faceva agli dei di consacrare a essi tutti i nati in primavera: vegetali, animali e uomini. I vegetali venivano offerti e gli animali sacrificati. I neonati umani non venivano uccisi, almeno in epoca storica, ma, divenuti adulti, erano votati alla divinità, perciò non più appartenenti alla comunità; banditi dai confini della patria, andavano a fondare altrove una colonia. La formula di questo voto, che Tito Livio (XXII, 10) ci ha conservata, era minuziosamente circostanziata. Il Pigorini ricollega e ricorda che si ritrova anche nel mito delle origini picene, in quanto i Piceni sarebbero Sabini sciamati dal paese nativo per voto di una primavera sacra e guidati da un picchio fino alla regione picena.
Nota 1) vovere = promettere in dono a una divinità, consacrare, dedicare.
Nota 2) presso vari popoli il rito del ver sacrum può essere esistito in epoca preistorica, ma si nutrono molti dubbi sull’asserzione che sia stato ancora in vigore al tempo dei magistrati del popolo romano.
B – Sesto Pompeo Festo – Narbona, II secolo d.C.: “Picena regio, in qua est Asculum, dicta, quod Sabini cum Ausculum proficiscerentur, in vexillo eorum picus consederat”. (La regione Picena, nella quale si trova Ascoli è chiamata così perché quando i Sabini partirono1 per Ascoli, un picchio si posò sulla loro bandiera).
Nota 1) con tutto il rispetto dovuto a Festo non è facile considerarlo credibile quando sostiene che il nome “Piceno” sia dovuto al fatto che un picchio si fosse posato sul vessillo dei giovani Sabini, in attesa di recarsi ad Ascoli. E se il picchio traghettatore avesse sbagliato strada?
C – Strabone – Amasea, 60 a.C. / 24 d.C.- geografia 5,4,2 “I Piceni sono giunti qui dalla Sabina, sotto la guida di un picchio che indicò il cammino ai capostipiti. Da ciò deriva il loro nome: essi infatti chiamano picchio quest’uccello, e lo ritengono sacro ad Ares”.1
Nota 1) Ares: greco dio della guerra. Strabone, in questo caso, ricorda di essere greco e fa scrivere alla Carassiti, nel suo Dizionario Mitologico, del 1997: “Marte. Antica divinità Italica poi identificata con il greco Ares”. Forse è più probabile che Ares sia poi stato identificato con Marte.
Il Marte greco – Dio feroce e sanguinario, spesso sconfitto. Combatteva su una quadriga trainata da cavalli immortali, con finimenti d’oro. Ares fu poco onorato in Grecia; il suo tempio in Atene fu da Augusto dedicato a Marte.
Il Marte italico – Figlio di Giove e della dea Tellus. Dio della fertilità, dei giardini, della vegetazione, della folgore, del tuono, della pioggia; solo dopo sarà associato alla guerra. A lui era dedicata la “Legio Sacrata” (sannita detta “linteata” – bianca). Il preromano Marte Italico “Mars” (detto anche: Marmar, Marmor, Mamers, Marpter, Mavors e Mamerte) era molto onorato presso i romani i quali lo definirono: Dio degli dei, Guerriero, Lucente, Perfetto, Incostante, Vendicatore e anche Silvano (per i suoi rapporti con l’agricoltura e la natura). Dalle varie definizioni di Marte potrebbe far riferimento molta toponomastica: dalle Marmore, alla Marsica, al Mamertino. A Marte erano sacri il picchio, il toro, il cavallo, il lupo, la quercia. La venerazione per questo dio fu tale che i romani lo scelsero come padre di Romolo. A Roma, i sacerdoti di Marte erano detti Salii; i Salii erano una organizzazione religiosa, politica e militare alla quale potevano accedere solo i patrizi con entrambi i genitori viventi. Gli Scipioni erano Salii.
Da “Indice Universale della storia e ragione d’ogni poesia”, dell’abate Francesco Saverio Quadrio – stamperia Agnelli Milano – 1752 – “Per maggiore chiarezza però è da fare che i Salii non furono eglino veramente da Numa instituiti; ma sì venuti essendo altronde ai Romani ne fondò un collegio. Da qual parte poi loro venissero questa è la questione”. Il Quadrio non parteggia per nessuna ipotesi sulla loro origine (dalla Samotracia, dall’Arcadia o trasportati da Evandro, Enea, Ercole1ecc)…“È di parere ben Servio, che Sacerdoti essi fossero di Ercole, e di Marte: poiché i Caldei la Stella di Marte appellavano Ercole, seguitati in ciò da Varrone che, come attesa Macrobio provato aveva, che Ercole era lo stesso che Marte”.
Per approfondimenti si consiglia la non semplice la lettura del volume citato, in particolare la pagina 114, tenendo conto che:
1 – In età romana, i Salii erano numerosi, militarmente ed economicamente molto attivi, costituivano una grande forza militare, politica e amministrativa (sul retro delle monete dei pontefici massimi si trova spesso il Litus, l’Apex e la Verga, tutti simboli dei Salii).
2 – In epoca Preromana, gli Aborigeni del medio Adriatico tenevano stretti e consolidati rapporti con tutti i popoli dell’oriente.
3 – Tralasciando altri testi, leggenda o non leggenda, si deve convenire che la fama del Marte Italico vada, almeno, fatta risalire agli anni della guerra di Troia.
Nota 1) Da Tacito Illustrato VE 1564:“Et Ottavio, Erennio, Antonio Gniso dicono, che i Salij furono Sacerdoti d’Ercole, e non di Marte, con i quali s’accorda Virgilio, quando dice nel VIII libro: Populeis adſunt evincti tempora ramis (hanno le tempie cinte da rami di pioppo) parlando de Sali, essendo l’oppio (pioppo) consacrato ad Ercole, e non a Marte”. Molti altri autori descrivono i Salij con il capo cinto di rami di pioppo, in latino Populus, – Virg. populnus, Plaut. Populneus (“Vocabula latini – 1768”), è sacro (il pioppo) ad Ercole. Queste brevi considerazioni potrebbero spingere a credere che“Pupuno”, la parola, scritta in alcune steli picene, potrebbe far riferimento ai Salij discendenti da Ercole. Più difficile far derivare Pupuno da pupus = giovane (“Vocabula latini italique 1768”): in dialetto piceno “PUPU”. Si crede comunque che si faccia sempre riferimento a Salj degni della corona di pioppo”.
Dionigi di Alicarnasso non sembra dare credibilità al Ver Sacrum – Prima di trattare dell’alleanza tra Aborigeni e Pelasgi, al fine di scacciare i Siculi dall’Italia Peninsulare (come sarebbe avvenuto 80 anni prima della guerra di Troia), nel cap. VI “Delle Antichità Romane”, tratta di tempi e città legate agli aborigeni : “… sorgeva Lista, la capitale degli Aborigeni, la quale non custodita, fu ne vecchi tempi invasa da Sabini che armati uscirono tra la notte dalla città di Amiterna. Quei che scamparono dalla invasione accolti in Rieti, fecero più e più tentativi: alfine impotenti a ricuperarla, dedicarono, quasi fosse ancor loro, quella terra agl’Iddii, ponendo sotto l’ira dei medesimi chiunque da indi innanzi i frutti ne ritraesse”. Gli aborigeni (Piceni), che implorano la maledizione degli “Iddii” sui conquistatori, non potevano accogliere a braccia aperte numeri imprecisati di giovani Sabini. Ancor meno avrebbero accettato che il loro Dio dei Dei avesse mandato il suo Picchio a guidarli nel Piceno, territorio in cui insistono numerose memorie dei Salii: Sacerdoti di Marte. Forse la leggenda del Ver Sacrum fu solo un maldestro tentativo di giustificare (indirettamente) l’inserimento degli antichissimi Piceni nel favoloso mito di Roma.
Il picchio – Il picchio appartiene all’ordine dei Piciformi, famiglia Picidi; in Italia si contano 9 specie e queste sono le caratteristiche principali dei picchi “italici”: dimensioni medio-piccole, massicci, arboricoli, generalmente stazionali, solitari e silenziosi, piede di tipo zigodattilo (due dita rivolte in avanti e due indietro), si arrampicano facilmente su per i tronchi e a terra saltellano. Nidificano e vivono in cavità scavate nei tronchi, in zone collinari, boscose e con piante grandi. L’albero preferito è il pioppo (nella mitologia sacro a Ercole; nei loro riti i sacerdoti Salii si cingevano il capo con rami di pioppo). Il picchio si nutre degli insetti e delle larve che trova sull’albero, o intorno a esso; non disdegna i ragni, i semi e le piccole bacche. Quindi il picchio, abituato a voli modesti, sul suo albero viveva “come un Picchio” e non gli sarebbe mai passato per l’anticamera del cervello di avventurarsi in una faticosa transvolata di centinaia di chilometri, con il rischio di “lasciarci le penne”. Tra i più diffusi in Italia:
Picchio Verde: Lunghezza 30-35 cm. Apertura alare 48-53 cm, Peso 150-250 gr., fino a pochi decenni fa era molto diffuso in Italia e nelle Marche dove ha assunto l’onore di essere il simbolo ufficiale di questa Regione.
Picchio Rosso Maggiore: lunghezza 21-26 cm, apertura alare di 42-43 cm., peso 60-90 gr. La classificazione come “maggiore” non è adeguata alle caratteristiche fisiche; è più volte citato nella “Traduzione Delle Tavole Iguvine” del Professor Giovanni Rocchi – PNL – maggio 2008.
Le Tavole Iguvine sono universalmente considerate la prima codificazione dei riti sacri dei popoli antichi, compresa “la lustrazione dell’esercito”, sovrapponibile al rito dell’“Armilustrium” dei Salii in età Romana. Prima dell’inizio del rito, l’augure doveva trarre l’auspicio dal volo degli uccelli“sulle rocche augurali… non si dia inizio alla lustrazione prima che sia stato assicurato che… la cornacchia è stata volatrice destra, che il picchio è stato volatore modesto…”. Che il picchio era modesto volatore si conosce da millenni. La datazione delle sette tavole bronzee (di cui cinque scritte su entrambe le facce) va fatta risalire almeno al tempo di Tito Tazio.
Considerazioni sull’antichissimo Piceno – Dai numerosi reperti rinvenuti, è evidente che il Piceno è stato da sempre molto popolato. Sono almeno tre i siti del Mesolitico (12.000 – 6.000 a.C.) scoperti nelle Marche:
1 – I reperti scheletrici umani dal Riparo della Rossa a Serra San Quirico (Ancona) “I reperti sono stati sottoposti a due diverse tecniche di datazione assoluta: 14C- AMS e 235U/231Pa, che hanno prodotto risultati discordanti, anche se i rispettivi intervalli di probabilità (5.225-4.893 a.C. e 8.000±3.000 a.C.) sono tra loro adiacenti e anzi leggermente sovrapponibili… gruppi culturali di appartenenza: Paleolitico, Mesolitico e Neolitico, e al sesso maschile o femminile, tramite uno studio antropometrico (G. D’Amore, E. Pacciani, P. Frederic.
2 – L’industria mesolitica di Pieve Torina – Nonostante il numero non elevato di strumenti è possibile un inquadramento dell’insieme di Pieve Torina nell’ambito del filone mesolitico ad armature dell’Italia peninsulare. (F. Martini, Il Mesolitico di Pieve Torina”.
3 – Tolentino c.da cisterna – vedi https://www.larucola.org/2020/05/02/a-tolentino-un-accampamento-di-10mila-anni-fa-ci-racconta/ Desta meraviglia che nella sola vallata del Chienti di tali insediamenti ne siano venuti alla luce ben due (26 km di distanza tra essi). Dovrebbero essercene molti altri da scoprire, anche sulle sponde degli altri fiumi. L’antico Piceno è ricco di reperti riferibili al Paleolitico (6000/3500 a.C.), al Neolitico (3500/2200 a.C.), all’età del bronzo (2200/1000 a.C.) e all’età del ferro! Il sovrapporsi delle tipologie di reperti attesta la continua presenza di popolazioni evolute, ricche e guerriere, in questo territorio. Gli utilizzatori e i costruttori, di utensili da lavoro, di armi e di monili, dovevano essere molto numerosi e forse non avevano granché bisogno delle reclute sabine. Non si deve dimenticare che l’Adriatico è un piccolo mare interno non soggetto a pericolo tempeste, facilmente navigabile anche con le modeste imbarcazioni primordiali. Gli scambi tra le due sponde dell’Adriatico furono intensi e costanti, agevolati anche dalle correnti superficiali (vedi: https://www.larucola.org/2016/08/13/correnti-superficiali-delladriatico – https://www.larucola.org/2018/04/22/il-mare-adriatico-avvicina-i-popoli-da-quattro-millenni /). Forse ho usato troppo italicum acetum, per castigare sorridendo le mode… Si dice che ai tempi dei re e dei consoli era consentito e apprezzato.
Nazzareno Graziosi
13 agosto 2020