A Montelupone, dopo la scomparsa della sòra Marietta, simbolo indiscusso di antica gestione matriarcale, la Farmacia Giachini passò in eredità alle due figlie, Egle e Silvia, ambedue mature zitelle, una direttrice dell’Ufficio Postale di Montelupone, l’altra maestra nelle Scuole elementari del paese. Egle, alta, imponente, matronale, pronta alla risata, ottima cuoca; Silvia, più minuta, dagli occhi intelligenti e vivacissimi, una piccoletta arguta e dai modi solari e spicci.
La scelta di un Direttore – Le zie, per norma di legge, non avendo titolo ad assumere la conduzione della Farmacia, si trovarono costrette a reperire sulla piazza un “direttore” fornito dei requisiti necessari. La ricerca non fu facile. In un primo tempo, si adattarono con un vegliardo ottantenne, solo e senza parenti, il quale, dopo alcuni mesi dall’aver assunto l’incarico, morì di infarto. A seguito di opportune alchimie organizzative, o per mero colpo di fortuna, subentrò uno scialbo giovanotto di origini albanesi, che si era da poco laureato presso l’Università di Camerino.
Il dottor Thoma – Il dottor Thoma, proveniente dalle opposte rive dell’Adriatico, perfetta personificazione di un intellettuale, inforcava i classici occhiali di metallo dalle lenti rotonde, su un volto glabro da pensatore, l’aria distratta e sognante. Conosceva diverse lingue, oltre l’italiano, per quella strana peculiare facilità di apprendimento che caratterizza, in genere, le popolazioni dell’est Europa. Taciturno e riservato, faticò non poco a inserirsi nell’ambiente paesano, ma, con il passare degli anni, meritando la piena fiducia delle zie per lo zelo e la serietà con cui ebbe a espletare le proprie mansioni, fu accolto nella numerosa schiera dei parenti e considerato uno di famiglia. È scomparso, alcuni anni orsono, dopo aver trascorso l’intera sua esistenza in paese (tranne alcune sporadiche evasioni turistiche) ed essere convolato a nozze con la domestica delle zie stesse, subentrata alla più che ottuagenaria Vittò.
Le zie sempre in coppia – Le due zie, grazie a un inimmaginabile spessore caratteriale, si delineavano per il modo deciso e aperto con il quale sapevano proporsi senza remore e falsi pudori, all’esterno. Mai che facessero pesare il loro stato di zitellaggio, mai che si chiudessero in sé stesse; anzi, si comportavano in maniera tale da essere sempre attorniate dall’affetto e dalla confusione dei più giovani del parentado o dalla vivacità degli alunni della vicina scuola. Si muovevano sempre in coppia, l’una debordante e dalla camminata pachidermica, l’altra (la Silvia) piccolina e rotondetta, dal passo stretto e veloce, cosa che la costringeva ad appendersi al braccio della Egle, per adeguarsi al diverso ritmo di marcia.
Due viaggiatrici – Verrebbe voglia di definirle, come si è soliti fare nella buona letteratura, “personaggi usciti da un romanzo”, ma la definizione non si attaglierebbe al caso, perché direi che le due sorelle erano personaggi tout court, per predisposizione naturale. Non si erano certo fossilizzate a Montelupone e ogni qualvolta le circostanze lo consentivano, si allontanavano (ovviamente sempre in coppia) dalla cerchia delle mura, per raggiungere un fratello sposato e accasato da tempo a Roma. Oppure, con la stagione più favorevole, si facevano accompagnare in posti divenuti oggi di larga frequentazione turistica come Napoli, Assisi, Venezia, Milano, ecc…
Sempre in taxi: la Balilla a tre marce di Righetto – All’epoca, viaggi del genere – effettuati da due persone di una certa età, di sesso femminile, sole, ritenute comunemente “burineimbranate” – erano considerati vere e proprie trasgressioni a una morale codina e retrograda. Il che rafforza maggiormente l’impressione di estrema libertà di idee e di disinvoltura che le zie proclamavano a ogni piè sospinto. Non apprezzando il treno o i pullman di linea, facevano uso dell’unico taxi esistente in paese: una Balilla a tre marce, antidiluviana per modello e accessori, parcheggiata perennemente sulla piazza principale del paese, tirata sempre e comunque a lucido, nera color pece, che, in periodo bellico, era stata costretta a circolare con i parafanghi vistosamente verniciati di smalto bianco. La guidava Righetto, figura mitica della vita paesana che – ritengo – trovasse la maggiore se non l’unica fonte di sostentamento in queste trasferte commissionate dalle “signorine” della farmacia.
Due streghe a Roma – Una volta Egle e Silvia si trovavano alla stazione centrale di Roma in attesa di prelevare il dottor Thoma che rientrava da un suo coraggioso viaggio a Salonicco. Entrate nel bar dalla stazione – tanto per mantenere fede a quella certa aria di contraddittoria e disinvolta sfrontatezza – aspettavano il loro turno, fissando il barman. Zia Egle, con la sua voce da contralto e anche perché, rispetto alla zia Silvia, sopravanzava di un buon metro il piano di mescita, ordinò ad alta voce: “Due streghe!”. Silenzio improvviso e visi attoniti da parte degli astanti. Il barista, colpito dalla imponenza della cliente e dal tono imperioso dell’ordinazione, si fermò per un attimo con uno strofinaccio a mezz’aria e quindi se ne uscì con un fulminante: “Le vedo!” – Le sorelle incassarono il colpo con eleganza e nonchalance, accettando con una rumorosa risata i bicchierini del liquore (appunto lo Strega) che venivano nel frattempo serviti dall’arguto e scanzonato giovanotto trasteverino. L’episodio si riseppe perché raccontato con arguzia e intelligenza dalle stesse protagoniste.
Silvio, il nipote romano – Nei mesi estivi veniva dalla capitale in paese un nipote: Silvio (o meglio Sirvio... quando si dice la frequenza dei nomi!) un giovanottone ventenne, dalla ragguardevole stazza di un quintale o giù di lì, allegro, scanzonato, simpaticamente invadente. Un effetto ciclone per il tranquillo menage di paese. Appena affacciatosi all’uscio di casa Giachini, Sirvio, buttando là un bagaglio essenziale e rivolgendo un affrettato indirizzo di saluto (Come state?… A Montelupò che sse fa?… Tanti saluti da papà e mamma… ve pòssino…) abbracciava con trasporto esagerato le zie. Nient’altro. Solo la famelica smania chissà per quanto tempo covata, intesa ad agguantare un pasto tutto ruspante.
La “pappatoria” – Espletate le cerimonie essenziali, si fiondava letteralmente – così narra la leggenda parentale – verso un ripostiglio dietro l’ampio locale della cucina, dove sapeva essere in bella vista i prodotti della “salata” fatta a suo tempo in casa “co’ la pacca de porcu” padronale. Così, giusto per controllare la consistenza delle provviste. E, smaniando nell’attesa, canticchiava sottovoce finché la vecchia domestica, ormai avvezza a simili scene, non gli confezionava, all’istante, un consistente panino farcito di ciaùscolo verace, tra due fette di pane casereccio. Uno di quegli atteggiamenti che le zie giudicavano, a dir poco, ineducato. Zia Silvietta (a ‘sto punto, offesa e indispettita dai modi del nipote, ospite più che gradito, ma indisponente e intempestivo) si parava davanti a lui, così minuta e impettita e, cercando di mascherare – nonostante tutto – la soddisfazione per la pur debordante presenza, gli sparava in faccia: “Quand’è che parti per Roma?”
Le novità musicali – Sirvio, d’altronde, aveva un grosso successo fra gli adolescenti del paese perché recava le novità della capitale in fatto di musica: parlava dei ritmi americani, del boogie/woogie, delle canzonette interpretate dai divi dell’epoca, Rabagliati, Natalino Otto, Ernesto Bonino, Clara Iaione, e canticchiava lui stesso i ritornelli, attorniato da un nugolo di ragazzine e ragazzini in adorazione, seduto su una delle panchine all’ombra dei pini del Pincetto…
Silvia la schifiltosa – La maestra Silvia, così affettuosamente chiamata da alunni e nipoti, era meti-co-lo-sa e, per quanto concerne le regole alimentari, schi-fil-to-sa all’eccesso; forse per la quotidiana frequentazione di malati, medicinali e ricette. Potete quindi immaginare di quali sfottò e, al limite, di quali tiri mancini potesse essere oggetto da parte di parenti, amici, alunni. Ogni qual volta si muoveva dal paese con il supporto del fatidico taxi di Righetto (lo scioffère) faceva aggiungere al numeroso bagaglio una cesta di vimini da picnic, contenente un set completo di piatti e posateria, che estraeva nei momenti più impensati e inopportuni. Era capace di sostituire integralmente il “coperto”, nel caso riscontrasse che il locale dove avevano fatto tappa non offrisse sufficienti garanzie di igiene e pulizia
Quella volta in albergo a Milano – Si raccontava in paese che, in occasione di un viaggio a Milano, scesa in un grande albergo-ristorante del centro (le due signorine, in quanto a comodità e comfort, non lesinavano mai sulle spese) la zia Silvietta, al momento della seconda colazione, servita in una sala tra gente profumata e ingioiellata, non ebbe il coraggio di estrarre dal magico cesto gli arnesi necessari alla bisogna, ma, con un tovagliolo di sua stretta pertinenza – non certo quello dell’albergo! – lustrò e rifinì a lungo vassoi, piatti, posate, bicchieri, insomma tutto quanto trovò ben allineato dinanzi al suo posto, prima che un compostissimo cameriere presentasse il menu. Altrettanto fece con le stoviglie di zia Egle e di Righetto il quale, comunque, era sempre ospite al loro tavolo.
La festa di matrimonio – Una volta, insieme a un folto gruppo di invitati, ivi comprese le zie monteluponesi e Sirvio, fummo invitati al matrimonio di una comune giovane parente. Dopo il rito nuziale, il lancio del riso, le foto d’obbligo ecc. ci trasferimmo in macchina ad Ancona, dov’era previsto il pranzo di nozze sulla terrazza panoramica del noto ristorante Il Passetto. Era il 26 di agosto, faceva un caldo infernale. Tra i tanti ospiti spiccava lo zio Lamberto, per la sobria eleganza, per il contenuto riserbo, peculiarità del perfetto funzionario di Banca, quale egli era. Siamo alla fine del banchetto, solita confusione della circostanza, i ragazzini che si rincorrono tra le gambe dei commensali, l’andirivieni dei camerieri che servono la torta nuziale.
“Chi è quel giovanottone?” – “Non lo conosco!” – Un signore, non della cerchia del parentado, si avvicina allo zio Lamberto, dignitosamente seduto in disparte con una coppa di spumante in mano. “Dottore – fa l’importuno – mi scusi, l’ho riconosciuta tra la folla… – e continua – perdoni la curiosità… ma mi sa dire chi è quel giovanottone, vestito in maniera a dir poco assurda, così confusionario e caciarone ? Non passa proprio inosservato…”. – Lo zio Lamberto si scuote dalla “cecagna” postprandiale, che coglie anche le persone dotate di una invidiabile dose di autocontrollo e, come risvegliandosi, risponde confusamente: “Mah… non so… farà parte del gruppo degli amici dello sposo… non lo conosco… certo che fa del tutto per farsi notare…” – conclude con un’espressione di divertita compiacenza. Sirvio, intervenuto alla cerimonia inguainato in un vestito di shantung azzurro/mare (che gli fa “difetto” da più lati), si distingue tra gli ospiti non solo per la insolita mise estiva, ma soprattutto per la chiassosa, ingombrante, goliardica presenza. Si è slacciato il colletto della camicia, ha il volto paonazzo per le bevute e il caldo, il sudore disegna ampie volute sotto le ascelle e passa oltre la giacca. Si asciuga con il tovagliolo mani, viso, bocca, ancora con visibili tracce di tutto quel ben di Dio che finora ha ingurgitato. Facendosi largo tra la calca, si avvicina sorridendo a quel tavolo solitario esclamando: “A zzì Lambè, comme stai, te venisse… ho visto de là zzia Laura, Mariella e Titti, che fai qua tutto solo eh?… ammazz… che cerimonia… E che magnata, te possino… ma hai sen-tito che straccia de caldo che fa, a li mort… ma che te stai a ‘mbriacà eh?” – Nel contempo, acchiappa lo zio esterrefatto per una così esagerata manifestazione di affetto, gli afferra le mani, gli accarezza la faccia, lo stringe a sé per abbracciarlo con più foga. Nel tentativo di divincolarsi dalla stretta, allo zio sfugge la coppa e lo spumante che, nella parabola di caduta, gli si rovescia preciso sui calzoni… Il signore, che aveva cercato di saperne di più su quello strano anacronistico soggetto, ancora nei pressi della postazione dello zio Lamberto, preferisce allontanarsi, non senza essersi girato più volte a gustare la scena, con un sorrisetto sornione a fior di labbra.
Goffredo Giachini
3 agosto 2020