Fiera e Festa del lunedì di Pasqua a Chiesanuova di Treia

Nel passato anche più lontano nemmeno le guerre e le carestie riuscirono a fermare l’antica fiera e festa del lunedì di Pasqua a Chiesanuova di Treia. Purtroppo quest’anno c’è riuscito il maledetto Coronavirus. Ho pensato di creare un modestissimo conforto ai miei compaesani che non potranno partecipare al tradizionale evento, raccontando loro la storia di questa nostra rinomata e antica fiera e festa. Nei documenti dell’Archivio parrocchiale e di quello della Curia di Treia risulta che tale fiera e festa abbia avuto origine verso la fine del Settecento, alcuni anni dopo la inaugurazione della chiesetta (1754) che diede il nome alla borgata, poi frazione. Non abbiamo notizie relative sul come si svolgesse la fiera nel Settecento e nell’Ottocento, ma dalle scarse fonti documentarie rinvenute riguardanti quelle epoche è stato possibile sapere che si trattava soprattutto di una fiera di bestiame e di prodotti della campagna, alla quale erano legate anche manifestazioni religiose dedicate a San Vincenzo Ferrer, il domenicano spagnolo molto venerato anche in Italia e famoso, secondo la tradizione, per aver operato in vita più di ottanta miracoli e molto amato soprattutto dagli agricoltori perché capace di far cadere la pioggia sui campi colpiti dalla siccità e di proteggere i raccolti dalle calamità. La mancanza di pioggia ha sempre rappresentato un dramma per l’agricoltura, tanto che a Treia in tempo di siccità veniva portato in processione un antico Crocifisso prodigioso detto, proprio per questa sua capacità taumaturgica, “Cristo della pioggia”, oggi conservato all’interno della chiesa di San Filippo nel capoluogo.

A Chiesanuova, contrada abitata soprattutto da contadini bisognosi di protezione per i loro raccolti, si decise ben presto di dedicare una festa a San Vincenzo Ferrer. Dunque, fin dalle origini e ancora ai nostri giorni, le principali manifestazioni religiose all’interno della festa sono dedicate a questo santo del quale campeggia nell’attuale chiesa una sua statua, che viene rimossa dalla sua nicchia solo il lunedì di Pasqua per la solenne processione lungo le vie del quadrivio. I giovani di oggi e i meno anziani hanno nella mente più la festa che la fiera perché quest’ultima non è riuscita a sopravvivere oltre i primi anni Cinquanta del Novecento. Dagli anni Settanta la manifestazione si è arricchita di numerosi eventi civili e ricreativi oltre quelli religiosi. Negli ultimi decenni la vecchia fiera si è trasformata in un grande mercato con la presenza di una infinità di bancarelle distribuite lungo le quattro vie che si diramano dall’incrocio del secolare quadrivio che da sempre caratterizza la borgata. Le bancarelle non propongono più la mercanzia campagnola che un tempo le caratterizzava, ma tutto quello che oggi si trova ovunque e specialmente nei centri commerciali. La moltitudine di popolazione che accorre dai territori vicini trasforma, dalla mattina alla sera, i bordi delle strade in parcheggi improvvisati con interminabili file di auto e per la ressa a stento la gente riesce a muoversi tra le bancarelle. A differenza dei tempi passati per i presenti ci sono tappe da non perdere, come l’improvvisata pista da ballo dove un’orchestrina offre allegria a chi si cimenta danzando al suo interno, ma anche a chi si intrattiene ai bordi solo per guardare. Numerosi sono coloro che tentano la fortuna nei pressi di una ruota che girando promette di far portare a casa formaggi, salami e prosciutti. Nello spazio verde di fronte all’oratorio i più tranquilli scelgono di sedersi sulle sedie accostate a lunghe tavolate per gustare, a prezzi accessibili a tutti, panini con la porchetta e altre prelibatezze che le abili mani delle signore “festarole” hanno preparato. I più giovani scelgono uno spazio poco distante dal quadrivio dove, da almeno una settimana, è stato sistemato un grande e rumoroso luna park. Davanti alla chiesa ben evidenti cartelli invitano a partecipare alla pesca di beneficenza organizzata da volontari che nelle settimane precedenti hanno raccolto i premi offerti da aziende, negozi e privati cittadini. Gli eventi religiosi non mancano e sono molto seguiti e con devozione.

Al mattino verso le dieci esce dalla chiesa la processione con in prima fila il parroco, seguito dal baldacchino portato a spalla con la statua del santo, dietro al quale si muovono il sindaco e qualche assessore, il maresciallo dei carabinieri e, se nel maggio o giugno successivi, come ormai da tempo capita quasi tutti gli anni, ci sono elezioni e si è in campagna elettorale, è possibile vedere anche qualche politico della zona di più alto rango. Il parroco scandisce le preghiere e si ferma alla fine di ogni tornata lungo le vie per impartire, con l’intercessione di San Vincenzo, la benedizione della campagna circostante e del quartiere più vicino. Durante la processione la musica e i richiami diffusi dagli altoparlanti delle bancarelle cessano per far spazio alle marcette religiose della banda di Treia che da sempre, per contratto col Comune, accompagna la processione. Conclusa la lunga e devota camminata lungo le quattro vie, tutti i partecipanti si ritrovano in chiesa per la celebrazione della messa solenne, di solito presieduta dal vescovo. Così si presenta la festa ormai da qualche decennio e anch’essa non ha saputo resistere ai richiami della modernità e del consumismo. Ma i giovani e i meno anziani di certo non sono a conoscenza di com’era la festa e fiera del lunedì di Pasqua vissuta dal loro genitori e dai loro nonni e bisnonni. La documentazione d’archivio non ci aiuta molto, ma una cinquantina d’anni fa, per scrivere qualcosa in merito in un giornalino parrocchiale, “Il Quadrivio”, che noi giovani di allora decidemmo di redigere, provai a intervistare alcuni anziani superstiti i quali, a loro volta, ancora conservavano nella mente i racconti dei loro genitori e nonni. Tra queste splendide persone vi erano mio nonno Cesare (Melambo), Giulio Corsi (U Carinu) e sua moglie Zita, Umberto Capitani (Pistarellu), Vincenzo Tassi (Filippó’), Ernesto e Gualtiero Rapaccini (Rapaccì), Ernesto Coppari Pieristè (Ciancanella). Di costoro la memoria personale non poteva ritornare indietro oltre il ventennio fascista, solo qualche sporadico ricordo di vecchi racconti ancora presente nelle loro menti giungeva agli inizi del Novecento. Da tutti ebbi la certezza che a Chiesanuova e nei dintorni la festa del lunedì di Pasqua era attesa per tutto l’anno non solo dalla gente di campagna ma anche dai paesani e dai cosiddetti “signori”, cioè i benestanti e ricchi della zona. Da Treia, da Appignano e dalle borgate vicine giungevano a Chiesanuova contadini e garzoni, padroni e padrone con le serve e signori ancor più altolocati abitanti nei palazzi di Treia o nelle ville in campagna. Lo ricorda anche Dolores Prato parlando delle gitarelle fuori porta del lunedì di Pasqua negli anni in cui si trovava a Treia. Popolo e rappresentanti delle classi più agiate erano mossi dall’allegria di quella giornata spensierata. Per i ricchi proprietari terrieri e per i loro “giovin signori/e” era occasione per pavoneggiarsi un po’, come fece il giovane conte Carnevali di Schito che durante la festa di Chiesanuova dei primi anni del Novecento, volle provare la sua nuova motocicletta, ma non sapendo come spegnerla, continuò a correre per le strade della contrada finché non si finì la benzina. Per i contadini, abituati a sudare lungo i campi e dentro le stalle, era solo un momento fugace di allegria, di spensieratezza e anche di possibilità di abbandonarsi a qualche piccolo eccesso, magari usando troppo la bottiglia di vino che avevano in mano o seguendo con insolita baldanza qualche gruppetto di giovani ragazze forestiere.

La fiera vera e propria era soprattutto costituita dalla vendita del bestiame, buoi, vacche e “manzitti/e” e maialini rinchiusi in carretti. I contadini, fin dal mattino, portavano i loro animali in quello spazio, poco distante dall’incrocio, verso Appignano, in cui si sarebbero svolte le operazioni di vendita e di acquisto, per questo ancora detto “campo della fiera”. Lì si cementavano con grida, strette di mano e pacche sulle spalle, contadini, macellai, fattori e improvvisati mediatori, detti sensali. Verso l’incrocio si sistemavano su banchetti i venditori di polli, detti “pujaroli”, ma anche i contadini che portavano a vendere oche, anatre, polli, tacchini e conigli. Non mancava le “spaserie” di “coccette” e di utensili in terracotta dei “coccià” di Appignano. Di spazi più ampi avevano bisogno i cordai di Treia, mentre il birocciaio locale, Sante Taruschio, famo-so in tutta la zona, esponeva gioghi per buoi, carretti e soprattutto i suoi migliori birocci nei quali non mancavano mai immagini dipinte a vernice di Sant’Antonio Abate o di San Vincenzo. Le due osterie mettevano qualche tavolo fuori per il gioco della briscola, passatempo di molti. Su quei tavoli non era difficile scorgere bottiglie vuote, ma che subito venivano sostituite da quelle piene. Capitava anche che il contenuto di quelle bottiglie, a forza di oltrepassare la gola, soprattutto quando le tenebre cominciavano a soffocare gli ultimi sprazzi di festa, causasse lo sfogo dei bollenti ardori in litigi e risse a volte anche gravi. Come oggi, anche allora vi erano alcune bancarelle, più vistose e organizzate, le quali esponevano soprattutto utensili da cucina e per i lavori di campagna e un po’ di abbigliamento: caldai di rame, pentole che nessuno chiamava così, ma sempre solo “cazzaròle”, catene e treppiedi per il camino, graticole per la brace, dette “serve”, piatti, pezze di stoffa, gomitoli di lana, corde, chiodi, zappe, pale, vanghe, “callarèlle” e carriole, zoccoli e stivali, zucchero filato e le quasi sconosciute carrube, le cosiddette “teghe marine”, vi si trovavano anche le aringhe che i contadini usavano per condire la polenta, o meglio, ne usavano una alla volta facendola pendere sopra la “spianatora” in modo tale da poter essere colpita dalla forchettata di polenta per insaporire il boccone. Non mancavano i prodotti dei campi, né formaggi e salami. L’unico fornaio esponeva davanti alla bottega le ciambelle e la pizza di formaggio, prodotti della zona, tipici del periodo di Pasqua, all’epoca ancora poco imbellettati e realizzati solo con gli ingredienti tradizionali.

Tra banchetti e bancarelle molti adulti giocavano alla “morra” e lo facevano con movenze quasi teatrali mentre i più giovani si divertivano giocando a “costamuro”, utilizzando qualche spicciolo in moneta che avevano in tasca. In quei lontani anni non si ballava all’aperto, non si usava ed era sconveniente, solo qualche suonatore d’organetto e di tamburella accennava a “saltarelli” che facevano muovere appena, appena, i corpi di coloro che li ascoltavano. Dai racconti degli intervistati ho appreso che nella prima metà del Novecento più o meno il programma della giornata è stato quasi sempre lo stesso e che in linea di massima ricalcava quello della fine dell’Ottocento. La festa, allora come oggi, era un misto di sacro e di profano. Al mattino presto, la prima tappa, soprattutto riservata agli uomini, era un localino attiguo alla chiesetta dove si poteva avere in omaggio un uovo sodo e un po’ di pane, frutto di una questua effettuata in tutta la parrocchia nelle settimane precedenti dai “festaroli”. Ma quell’uovo sodo non veniva mangiato quasi mai perché serviva per una antica consuetudine che albergava fra gli uomini del luogo, la gara della “cioccetta”. Si teneva l’uovo stretto in mano facendone emergere solo una parte. Si invitava un’altra persona che ugualmente teneva un uovo allo stesso scopo e la si invitava a “ciocciare” le uova. Chi restava con l’uovo rotto in mano aveva perso la gara e doveva cedere all’avversario il suo uovo. I più scaltri usavano tecniche e trucchi nascosti che consentivano loro di riempire le tasche di uova sode da portare a casa. Alcuni, attraverso un buchetto, riempivano maliziosamente l’uovo con della cera fatta colare da una candela, altri più attenti all’immagine e all’apparire, si presentavano con uova portate da casa e colorate di blu con i fiori di muscaria, i cosiddetti “pignilòvi”. La tradizione della distribuzione dell’uovo sodo ancora è rimasta, come è rimasto il gioco delle bocce a cui già allora gli appassionati si dedicavano negli spazi di terreno adiacenti alla chiesetta.

Verso le dieci del mattino tutto si fermava perché “usciva” la processione. Era molto frequentata, tutti in fila lungo la strada e guai a fermarsi ai bordi e a non partecipare, era assai disdicevole comportarsi così e si veniva additati. C’era una enorme differenza rispetto a oggi: i partecipanti non camminavano mescolati, dietro al parroco, ai frati di Treia e ai confratelli con le insegne, la popolazione era divisa e raggruppata per genere e per età. Bambini, bambine, ragazzi, uomini, nubili, sposate, consorelle con lo stendardo. Dietro al baldacchino con la statua del santo c’erano anche allora le autorità comunali e subito a seguire i signorotti del luogo e il più delle volte le due cose coincidevano. A differenza di oggi le preghiere non venivano diffuse con altoparlanti ma bastava l’assoluto e devoto silenzio della gente per farle risuonare in ogni tratto della processione. Al momento delle quattro benedizioni della campagna la maggior parte dei contadini presenti alzava la croce di canna che tenevano in mano, nella quale erano infilati dei rametti di ulivo, di quelle palme che la settimana prima erano state benedette in chiesa prima della lettura della “Passio”. Tornati a casa quei contadini si affrettavano a piantare quelle crocette di canna in mezzo ai campi, come protezione celeste per i raccolti. Il corteo, allora come oggi, si concludeva in chiesa per la messa, dove i più volenterosi sarebbero tornati nel tardo pomeriggio per il rosario e altre cerimonie. Dopo la messa si ritornava a casa, i contadini si toglievano l’abito della festa che avevano indossato la mattina, per non sporcarlo, poi davano un’occhiata alla stalla, e dopo un po’ tutti a tavola intorno alla quale si sedevano anche i numerosi parenti che tradizionalmente si presentavano in quel giorno di festa. Il pranzo, che era un po’ più ricco del solito, si concludeva con un pezzo di pizza di formaggio e di ciambella, mentre i bambini finivano i resti della “colombella”, regalata loro il giorno di Pasqua, consistente in un tradizionale dolcetto-giocattolo confezionato per loro dalle donne di casa, costituito da un uovo sodo dipinto, racchiuso dentro un piccolo contenitore di pasta. Finito il pranzo, le donne sistemavano la cucina mentre gli uomini dedicavano un’oretta al gioco delle bocce nell’aia o nel prato della casa colonica. Poi tutti di nuovo alla festa. Il pomeriggio era dedicato soprattutto alla festa e allo svago. Le strade e gli spazi erbosi vicino alla chiesa venivano utilizzati per intrattenimenti curiosi e a volte stravaganti, ma che procuravano gioia e sorriso in tutti i presenti. Gli anziani con cui parlai hanno riferito di diversi intrattenimenti, naturalmente non presenti tutti insieme nella festa dello stesso anno, a volte erano alcuni, a volte altri.

Quelli che tutti ricordavano erano questi che ora elencherò. Molto partecipata e divertente era la corsa delle oche che veniva organizzata lungo un tratto di strada davanti la chiesetta, consapevoli che non vi era traffico né che bisognava bloccarlo o deviarlo, come accade oggi. Alcuni contadini, proprietari di oche, ne mettevano in gara una, la più atletica e allenata, in una corsa su un percorso di circa cinquanta metri. Le docili bestiole dovevano rincorrere il padrone e seguirlo sollecitate dai suoi chiassosi richiami ben conosciuti dalle bestiole che con lui si erano allenate nell’aia, imparando a seguirlo di corsa. Il premio era solo per il padrone che solitamente riusciva a portare a casa qualche piccola forma di cacio, mentre per l’oca non c’era nemmeno la certezza di evitare la pentola nei preparativi del pranzo che le vergare avrebbero preparato per padroni, machinisti e “opere”, nella trebbiatura di giugno. In quel pranzo, nelle nostre campagne, l’oca non poteva mancare. Tra i divertimenti più seguiti a volte vi era anche un’altra corsa, quella dei cavalli con in groppa un fantino che altri non era che il contadino proprietario dell’animale. Questa si svolgeva in un percorso abbastanza lungo, nel triangolo costituito dalle strade per Treia e per Cingoli e dalla scorciatoia delle querce che ancora oggi le congiunge. Più spesso al posto dei cavalli correvano gli asini, mai chiamati così ma sempre “somari”, in un percorso più breve che partiva dalla chiesa e proseguiva per circa duecento metro verso Cingoli. Il divertimento era assicurato soprattutto dai tentativi dei guidatori di far ripartire gli animali che, disturbati dal caos intorno a loro e infastiditi da quell’inutile e incomprensibile sforzo, si ribellavano bloccandosi risolutamente. In anni più recenti le corse di animali sono state sostituite dalle “corse campestri” riservate a ragazzi del luogo ma, a volte, anche a podisri provenienti da fuori zona. I premi non erano più prodotti alimentari, ma coppe metalliche e medaglie. Immancabile in quasi tutte le feste del passato, ma anche in quelle più recenti, era il gioco della rótta delle pigne. Di fianco alla chiesa venivano issate due lunghe stanghe, distanti una dall’altra una decina di metri, collegate in alto da una robusta corda dalla quale pendevano alcune pigne di terracotta, distanti un metro tra loro, contenenti o dolciumi, o acqua, o qualche moneta o niente. Il concorrente bendato doveva cercare di colpirle con un lungo bastone. Se ci riusciva ed era fortunato diventava proprietario del contenuto della pigna rotta. Il divertimento per i presenti era alimentato dai colpi a vuoto e dalle pigne colpite che buttavano acqua sul concorrente. Frequenti erano le bastonate maldestre verso il pubblico. Non mancava la corsa dei sacchi. Il partecipante si calava in un sacco vuoto con le gambe legate, divenendone il contenuto fino alla cintola, poi tenendo il sacco con le mani per non farlo scivolare a terra, saltellava cercando di arrivare per primo al traguardo posto al  termine di un percorso di una trentina di metri. Il pubblico partecipava con incitamenti e divertendosi per i ruzzoloni dei concorrenti. I giovani più robusti della zona aspettavano la festa per partecipare all’impresa dell’albero della cuccagna. Era un esercizio di abilità che consisteva nell’arrampicarsi su di un lungo palo nella cui cima erano stati posti premi, solitamente in generi alimentari, come formaggi, salami e prosciutti. Il palo veniva cosparso di grasso per rendere più complicata l’arrampicata. I presenti applaudivano coloro che riuscivano nell’impresa di arrivare in cima e ridevano quando il concorrente scivolava in basso cadendo a terra. Ci si divertiva con poco e con tutti mezzi e stratagemmi, per così dire, fatti in casa.

Durante la seconda guerra mondiale la fiera e festa non s’interruppero anche se quasi esclusivamente riservate alle cerimonie religiose e a qualche gara di bocce e di briscola. Dopo la guerra la festa riprese con l’antico vigore e con l’accresciuto entusiasmo di tutta la popolazione. A Chiesanuova c’era anche la gioia di avere una nuova chiesa, l’attuale, che divenne il punto di aggregazione principale degli abitanti della zona. Negli anni ‘50 avvenne un fatto straordinario: arrivò nella borgata e in buona parte della campagna l’elettricità, che cambiò la vita di molte famiglie. Anche la festa del lunedì di Pasqua ne risentì favorevolmente. La “luce” o “corrente” portò nel campo della fiera un nuovo divertimento, le giostre. All’inizio erano solo due, una per gli adulti e una per i bambini. In quest’ultima pure io, per la prima volta in vita mia, sono potuto salire, virtualmente, in groppa a un cavallo e guidare da solo una auto e una motocicletta. Ma per me le possibilità erano poche perché nelle tasche dei miei genitori, come in quelle della gente di campagna, i soldini per fare i giri in giostra erano molto, ma molto limitati. Gli adulti più giovani e spericolati, nella giostra grande si facevano lanciare in alto da un amico seduto in un seggiolino posteriore per tentare di strappare un fiocco che garantiva a chi riusciva ad acciuffarlo un giro gratuito e, soprattutto, l’ammirazione delle ragazze sottostanti che non sempre resistevano al desiderio di salire e provare anch’esse l’ebbrezza del volo. Loro non potevano tentare di strappare il fiocco perché avevano le mani impegnate a evitare svolazzi intriganti delle gonne. Le giostre allietavano il circondario con le musiche del liscio romagnolo diffuse dal giradischi manovrato dal giostraio. L’arrivo qualche giorno prima delle giostre e la musica di clarinetti, sassofoni e fisarmoniche portavano nell’aria e nei cuori il sapore della Pasqua e della vicina festa. Non passarono molti anni e quel vecchio campo della fiera si arricchì di giostre più moderne e  divertenti, di autoscontri per grandi e piccoli e di giochi di abilità. Per i ragazzi portare all’autoscontro una ragazza seduta al proprio fianco era il più grande miracolo che San Vincenzo poteva fare. Non va dimenticato che in ogni epoca i veri protagonisti della festa sono sempre stati coloro che con passione e dedizione l’hanno organizzata e gestita: i “festaroli”, uomini e donne amanti della propria terra e della tradizione. Nei secoli passati, come oggi, senza il loro impegno la festa non sarebbe sopravvissuta così a lungo, sempre crescendo e senza interruzioni. Ciò che non è successo in passato è accaduto quest’anno a causa di un virus violento, inaspettato e sconosciuto, arrogante e blasfemo che ha osato presentarsi con una corona regale in testa. Ma non sarà un re vincitore! Come tutti i suoi simili che lo hanno preceduto sarà soffocato e sconfitto da un altro virus sempre presente tra la popolazione di questa zona: il virus benefico della solidarietà, della fede e della collaborazione che sempre ha aiutato a vincere anche le più difficili battaglie e a sconfiggere i mali peggiori.

Alberto Meriggi – Presidente del Centro Studi Storici Maceratesi

21 giugno 2020

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