Il nostro ringraziamento ad Antonio Volpini che ha avuto la pazienza di mettere a disposizione e scartabellare libri e documenti antichi, nonché manifesti delle varie epoche, tutto di sua proprietà, per offrire ai lettori una panoramica veritiera di epidemie e pandemie tratta da testi originali, capire come vivevano le persone e quali cure i medici somministravano ai pazienti.
Il morbo asiatico nei tempi antichi – Il “morbo asiatico” detto Covid 19 che sta imperversando nel nostro paese ha radici molto lontane. Alcuni provvedimenti adottati dai governi, per combattere la trasmissione del virus e sconfiggere l’epidemia, non sono molto diversi da quelli adottati in passato. La contumacia sanitaria a cui ci sottoponiamo, anche volontariamente in questi giorni, era uno dei sistemi adottati, così come i cordoni sanitari che servivano e servono ancora oggi a impedire la diffusione del contagio. Fra i numerosi documenti e volumi, raccolti in tanti anni di appassionate ricerche da parte del sottoscritto, ve ne sono alcuni che trattano come argomento le epidemie, e in particolar modo la peste e il colera, che ciclicamente invadevano gli stati europei causando morte e desolazione. Molte delle raccomandazioni che ascoltiamo puntualmente ogni giorno, non sono diverse da quelle che in passato venivano impartite alla popolazione, attraverso l’unico mezzo di comunicazione allora disponibile, la scrittura.
In un saggio di Baldassarre Pisanelli, stampato a Roma nel 1577 (foto 1), c’è una considerazione quanto mai attuale e che fa riflettere: “Gli uomini si restringono dentro le mura di una rocca, armati di tutte le cose necessarie, e fanno gagliarda resistenza all’impeto di ogni numeroso esercito, rendendo vani gli assalti e inutili le imprese di quell’esercito. Con la stessa maggior diligenza devono gli uomini per il servigio e per la conservazione di tutto il genere umano, unirsi tutti insieme per assicurarsi dell’imminente pericolo della pestilenza”. Certo le cure e rimedi all’epoca erano spesso affidate all’improvvisazione e alla fantasia, alcuni di questi, oggi ci fanno sorridere. Come quello che ci raccomanda l’autore sopracitato, Baldassarre Pisanelli, egli infatti descrive una ricetta che “ammazza i vermi della peste: Aloe, mirra e zafferano quanto basta, lombrichi terrestri pestati una dramma,(equivalente a 3,5 grammi circa) coriandro quattro dramme, fiele di toro due drammee bisogna beverci appresso una gran tazza di siero di capra tiepido” (un composto di feci e urina di capra, che per la cultura popolare poteva curare la peste e altre malattie infettive).
La peste di Milano del 1630 – Numerose sono le testimonianze scritte che ci sono pervenute, e che testimoniano epidemie prevalentemente di peste e di colera che si sono succedute a intervalli regolari in Europa e in Italia. La peste di Milano del 1630 raccontata da Giuseppe Ripamonti (foto 2) fu preceduta da una terribile carestia, la guerra di successione del Monferrato tra la Francia e l’Austria ne fu la causa principale, lo spostamento di truppe dei paesi belligeranti verso il nord Italia accelerarono la diffusione della peste. Il Ripamonti parla anche degli untori. Si pensava all’epoca che alcuni individui avessero contribuito alla diffusione della peste introducendo materiale organico infetto, fra questi l’autore cita Guglielmo Piazza e Gian Giacomo Mora, che furono giustiziati fra atroci torture, ma in realtà si scoprì che erano innocenti. Tuttavia alcuni manifesti dell’epoca testimoniano che furono realmente trovati i catenacci delle porte e i banchi delle chiese imbrattati con grasso animale probabilmente infetto. Si stima che all’epoca, su una popolazione nel nord Italia di 4.000.000 di persone ne morirono per la peste 1.100.000.
La peste di Marsiglia del 1720 – Nel 1720 ci fu una grande epidemia di peste a Marsiglia che si propagò in tutta Europa, Italia compresa, e fu l’ultima grande epidemia di peste in Francia. Un manifesto stampato a Torino il 7 agosto del 1720 ci dà testimonianza di questo funesto evento(foto 3). Leggiamo fra le varie disposizioni anche il divieto di esportazione di tutte le merci dalle città di Marsiglia, Provenza, Linguadocca, (Languedoc-Roussillon) Nizza, Monaco, Mentone e Genova. Inoltre si stabiliva che l’unico accesso in Italia dalla Francia era attraverso il Moncenisio e tutte le persone dovevano essere munite di fedi di sanità (certificati di buona salute) ed erano soggette a un periodo di quarantena sulla frontiera di 20 giorni. Come recita il manifesto la pena per chi contravveniva a queste disposizioni era la morte: “Chiunque contravvenisse al presente editto o che ardisse forzare le guardie o steccati a luoghi ove saranno posti incorrerà nella pena della morte”.
A testimonianza della periodicità delle epidemie, che si manifestava in Europa e non solo, leggiamo in questo interessante manifesto stampato a Genova e datato 30 giugno 1741 (foto 4): “Pervenutoci in questo giorno da Tunis (Tunisi) che colà da un mese circa fosse insorta una malattia di febri colla mortalità negli attaccati di 70-80 e talvolta 100 al giorno… Tutte le imbarcazioni provenienti nell’avvenire dall’Africa tutta, compresa l’isola di Tabarca, siano, e s’intendano sottoposte all’intiero periodo della contumace”.
Peste di Noja, prima grande epidemia del XIX secolo – Il 1800 fu il Seculus Horribilis per ciò che riguarda le epidemie, l’industrializzazione e il progresso tecnologico, indussero molte persone a spostarsi da un luogo all’altro contribuendo in questo modo alla diffusione della peste e del colera. La prima grande pandemia del XIX secolo fu la peste di Noja oggi Noicattaro, una cittadina della provincia di Bari, che per prima subì il contagio della peste venuta dalla Dalmazia. Il Regno di Napoli decise di stampare un settimanale (redattore Francesco Paolo Bozzelli) che aveva lo scopo di redigere la situazione nella città di Noja, giorno per giorno (foto 5).
Da questo prezioso e raro giornale apprendiamo in maniera estremamente dettagliata tutti i provvedimenti atti a impedire la diffusione del contagio, ma soprattutto l’assoluta determinazione del governo nel cercare di raggiungere lo scopo a ogni costo. Si stabilì di realizzare due cordoni di sicurezza intorno alla città di Noja e cioè due fossati, il primo a una distanza di 90 passi dalla città, (circa 66 mt.) avevano entrambi una profondità e una larghezza di sei palmi (circa 160 cm.) venivano riempiti di acqua, la distanza tra i due fossati era di 30 piedi (circa 22 mt.) questi due fossati avevano un solo passaggio, nella stessa linea della porta principale della città, era fatto di tavole, tipo ponte levatoio, alla testa di ogni passaggio vi era un iscrizione, indicante la pena di morte, da infliggersi a chiunque avesse osato oltrepassare i cordoni di sicurezza, vi era anche una baracca, con una pattuglia di guardia. Sul secondo fossato vi erano delle sentinelle, una a vista dall’altra ed erano incaricate di sparare a tutti gli animali che avessero cercato di oltrepassare i fossati dall’interno della città, inoltre qualunque individuo avesse osato oltrepassare il primo fossato, sarebbe stato avvisato dalla sentinella, se malgrado al primo avviso non si fosse arrestato, sarebbe stato ucciso dalle guardie appostate nel secondo fossato. Durante la notte vi erano dei fuochi che illuminavano tutto il cordone intorno alla città, a una distanza di 10 miglia (circa 18 Km.) vi era un terzo cordone con le stesse caratteristiche dei primi due. La cosa più raccapricciante, è che le autorità non informarono del contagio gli abitanti della città di Noja, lo scopo era quello di evitare fughe dovute al panico, solamente dopo la realizzazione di tutte le misure di contenimento, la popolazione della città venne messa al corrente dell’epidemia di peste, nel frattempo erano morte decine di persone. I provvedimenti che le nostre autorità stanno adottando per contenere il virus, non sono una novità, Francesco Paolo Bozzelli nel suo giornale scrive: “La nettezza delle strade e dei luoghi pubblici è particolarmente raccomandata al sindaco e ai decurioni (amministratori) del paese, inoltre si debbono proibire le grandi riunioni nelle case private, nei caffè, nelle chiese, nei teatri ed in altri luoghi, tali assemblee danno incentivo allo sviluppo della materia contagiosa”.
Chiunque si trovava a viaggiare in tempo di epidemia era obbligato a portare con sé la fede di sanità (certificato di buona salute) vistato da tutti i sindaci dei comuni per i quali era passato (foto 6). Questo raro documento, è una fede di sanità (certificato di buona salute) datata 29 marzo 1744 e intestata a Filippo Onofri che “Parte da questa nostra terra dove (per grazia di Dio) si vive senza sospetto alcuno di peste o contagio questo giorno… San Ginesio 29 marzo 1744”.
Tutti i generi trasportati subivano la espurgazione per evitare il contagio, metalli, pelli, vetri, monete, medaglie e oggetti di ogni genere, dovevano essere immersi nell’aceto, compresa la carta da lettere o i libri, che una volta sottoposti a lavaggio con l’aceto, venivano posti ad asciugare al sole, gli oggetti si potevano ritirare solamente dopo15 giorni. Nella sola città di Noja, a causa della peste, perirono 700 persone su una popolazione di 4000 (foto 7).
I lazzaretti – Sin dai tempi antichi, il gran numero di ammalati che in breve tempo avevano bisogno di una cura, venivano ricoverati in alcune strutture apposite dette Lazzaretti. Le città più grandi ne avevano più di uno, nel volume: Leggi e Provvedimenti di sanità per gli Stati di Terraferma di S. M. il re di Sardegna, stampato a Torino nel 1831 (foto
8) apprendiamo che i Lazzaretti erano costituiti da due edifici contigui ma distinti, la parte contumace, dove venivano alloggiati i sospetti di contagio, e la parte libera dove si trovavano le persone sane. Ambedue gli edifici erano chiusi da un recinto, e avevano una sola porta per ogni edificio, quella della parte contumace era chiusa a chiave dall’esterno, e su una parete vi era una apertura per introdurre il cibo agli ammalati, che all’interno dell’edificio non potevano comunicare tra di loro, perché le camere erano chiuse a chiave, all’interno di ogni camera vi erano due letti, uno per l’ammalato, l’altro per un assistente, anch’esso in quarantena. I letti erano in ferro, perché in questo modo potevano essere disinfestati con il fuoco, accanto al lazzaretto c’era il cimitero, dove i defunti venivano sepolti in buche molto profonde e cosparsi di calce viva. Questo edificio aveva tutto intorno una grande corte dove trovavano posto le derrate alimentari e i materiali che prima di essere introdotti all’interno, dovevano essere disinfestati. All’interno del Lazzaretto era prevista anche una prigione per tutti coloro che dovevano scontare una pena e avevano subito il contagio. Erano previsti inoltre gli alloggi per gli ufficiali sanitari, la cappella e il deposito delle armi da fuoco.
La grande epidemia di colera del 1836 – Nel corso del XIX secolo, numerose furono le pubblicazioni stampate nelle Marche che davano istruzioni su come difendersi dal colera, come questa (foto 9) stampata a Macerata dal dottor Evasio Andrea Gatti (Cautele per la salute pubblica Macerata 1831). Il Gatti infatti sembra presagire con questo opuscolo quella che di lì a pochi anni sarebbe stata una delle più terribili epidemie di colera del XIX secolo. Il volume è ricco di consigli e informazioni sul comportamento da usare per evitare il contagio. In primo luogo l’alimentazione, l’autore infatti sconsiglia i vegetali difficili da digerire come cocomeri, peperoni, rape, cardi, cipolle, aglio, scalogno e altre erbe crude. Anche le carni come il manzo, castrato, erano da evitare, e come era abitudine soprattutto nel XIX secolo l’autore, che era un medico, consiglia vivamente di favorire periodicamente le perdite di sangue attraverso l’epistassi, le emorroidi, la mestruazione, ove questo non fosse possibile, consiglia di fare un salasso a intervalli regolari. Il salasso o emodiluizione è una pratica medica molto antica, si pensava infatti che le malattie fossero causate dalla presenza nel corpo dell’ammalato di cattivi umori, si cercava perciò di farli uscire con il salasso.
Oltre all’uso delle sanguisughe, si faceva ricorso anche all’uso di strumenti chirurgici come lo scarificatore a cubo (foto 10), che veniva appoggiato sull’avambraccio in corrispondenza di una vena, una molla interna liberava una serie di lame che fuoriuscivano da alcune fessure, lo scatto era velocissimo e impercettibile all’occhio umano. Come aveva presagito Evaristo Andrea Gatti, agli inizi del 1836, scoppiò una gravissima epidemia di colera, che interessò gran parte delle nazioni europee, Italia stessa compresa.
Nemmeno la nostra regione, le Marche, fu risparmiata, solamente nella città di Ancona, come si legge dal curioso e dettagliato prospetto (foto 11) pubblicato qui a fianco, in soli due mesi, su un totale di 1556 contagiati, morirono 716 persone, in pratica quasi la metà. Tra costoro, 13 avevano meno di 10 anni, 43 meno di 20 e 62 meno di 30, 376 furono le persone decedute tra i 40 e i 70 anni. Nel solo mese di settembre, perirono a causa del colera 546 persone. Le numerose epidemie e gli scarsi mezzi a disposizione per la cura, portarono in passato a una drastica e rapida diminuzione della popolazione, in questa tavola sinottica del colera stampata a Roma nel 1840 circa (foto 12), si dice che in alcuni casi la malattia lasciata a sé stessa, aveva fatto perire i due terzi degli ammalati.
Dio non voglia che la umanità debba conoscere eventi terribili come quelli sopra descritti, tuttavia la paura non si può misurare né controllare e affiora nei momenti in cui ci sentiamo più insicuri, ma è la paura stessa che dovrebbe invitarci alla cautela e al sano vivere. Oggi abitiamo in un’epoca in cui la scienza soprattutto in campo medico, compie ogni giorno continui progressi, ma non dobbiamo e non possiamo illuderci, perché come già detto all’inizio, Baldassarre Pisanelli (discorso sopra la peste Roma 1577) diceva che malattie non si combattono con le armi ma con l’unione e la collaborazione di tutti i popoli.
Antonio Volpini
27 maggio 2020